Quanti cani bastonati nella notte dell'età d'argento
incontro con Ginevra Bompiani, scrittrice "appartata" senza civetteria
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«Non mi sento appartata. Semmai afona. Forse perché vivo in campagna e la voce in campagna "non porta", come si dice. Però ho fatto un teatro nel fienile che ha una buonissima acustica». Tanti scrittori si autodefiniscono «appartati» per civetteria. Ma Ginevra Bompiani, romanziera, docente universitaria, è forse l'unica scrittrice italiana ad esserlo davvero. Non partecipa ai premi letterari, non scrive sui giornali, non chiacchiera alla radio né in TV. Il suo ultimo libro, appena pubblicato, è un romanzo breve. L'età, dell'argento (La Tartaruga, 70 pp., £ 20.000). Per parlarne, dobbiamo raggiungerla a Lerici sul Golfo dei Poeti, un tempo foresteria per gli scrittori ospiti della villa di Valentino Bompiani.
In pratica tutto il catalogo Bompiani è passato di qui, non è vero?
«Dalla casa dei miei genitori a Lerici passava molta gente. Dal vicino Soldati a Piovono, da Guttuso a Moore, da Sereni a Bergamin, da Calvino a Pasolini, tutti passavano in versione estiva. Ho una fotografia di Calvino, Pasolini, Einaudi, Ottieri, Moravia in costume da bagno sulle rocce bianche. E poi, un giorno, in quel giardino, è nato il Gruppo 63». Com'è che lei, anziché fare l'editrice, si è messa a scrivere? «Potrei dire che scrivere è un modo per cambiare umore. È comunque il caso dell'Età dell’Argento, nato sotto gli auspici di un umore fra i peggiori: ed è proprio un'età così, di pianti senza ragione, di litigi, di passioni perverse e puerili. In quel periodo non mi riusciva di scrivere e per riprendere mi sono assegnata uno spazio di una riga per dire qualunque cosa».
E che cosa veniva fuori in una riga?
«Sentenze. Ma quando mi sono avventurata nelle due righe, è emersa la descrizione: in due righe ci sta un paesaggio. A tre righe, è arrivato il narrativo. Ed è arrivato con le tre parole che hanno prodotto questa storia: nostos, farina e silverage. Per tutto il racconto, poi, ho mantenuto la stessa regola. Quando mi sentivo pronta, crescevo di una riga, ma non potevo mai tornare indietro. Il testo comincia con un paragrafo di tre righe e finisce con uno di ventiquattro».
A differenza dell'età dell'oro, che non si può percorrere né raggiungere ma solo ricordare - lei scrive l'età dell'argento si può narrare. Perché?
«L'età dell'oro è immobile ed eterna, corrisponde alla forma del tempo che i Greci chiamano Aion, l'attimo infinito sospeso a una felicità che in realtà è l'incrocio di infinite circostanze e che l'immaginazione, o l'illusione, rendono estatico. Appena qualcosa muta o si muove, l'età dell'oro precipita e decade. Per questo non è narrabile, ma solo estaticamente sospirabile».
E l'età dell'argento?
«È mobile, è viva, invece, fatta non della materia dei sogni, ma di quella dei sogni andati a male, di umori, di languori, di crampi e di lacrime: insomma, di materiale fisiologico. Oggi le parole "età dell'argento" evocano la vecchiaia, il crepuscolo, la malinconia. Ma dietro la madreperla della sera si nascondono il metallo furtivo della notte e l'argento vivo del mattino. È l'argento dell'alba e dell'infanzia e non quello del tramonto e della vecchiezza, che Esiodo, nelle Opere e i Giorni assegna alla seconda età dell'uomo. Il momento in cui, appunto, ogni storia comincia».
A proposito di infanzia, veniamo al nodo centrale del romanzo. A me sembra che parli anzitutto di animali e di bambini uccisi o presi a botte, come Pàcaro. Nel racconto si dice che «l'animale è il presente di cui facciamo massacro».
«Gli animali sono protagonisti quanto gli umani di questo racconto, anche se non vi compaiono mai da vivi: sono quelli esposti nel mercato, i conigli scorticati, le teste di maiale, la cagna uccisa a bastonate. La carneficina animale fa parte della quotidiana innocenza dell'isola, che freme di orrore quando si parla di incesto, ma passeggia tranquilla nei rivoletti di sangue del mercato. Anna Maria Ortese chiama l'animale "il fratello maggiore" cui l'uomo ha rubato la primogenitura. I cosiddetti "piccoli", i minori della terra, animali e umani, sono in realtà giganti offesi e umiliati da furbi e spietati piccoli David, futuri re, campioni in pentimento. Minuscoli sono i potenti. Ma forniti di fiondo e altre armi proprie».
Della Ortese si sente un forte influsso.
«Sarei contenta se riuscissi a scrivere una sola riga degna della Ortese. L'ho conosciuta a Rapallo. Andavo a trovarla là e poi a Milano, alla casa di riposo dove si rifugiava negli ultimi anni. La prima volta, lasciandomi, mi disse: "Lavori! Non c'è nient'altro, sa?". Si nascondeva sempre come un animale e mordeva anche, se qualcuno cercava di stanarla. Rimpiango di non averla stanata di più, per paura dei morsi, e per devozione».
Non le sembra che abbia troppo poco spazio nella storia letteraria ufficiale?
«La storia letteraria ha sempre un doppio passo, quello ufficiale e quello del viandante notturno che canta da solo. Basta pensare alla morte di Landolfi passata in silenzio, o a Loria, a Delfini. Ci sono scrittori e soprattutto scrittrici di cui le storie e le antologie italiane stentano a parlare: la Ortese non raggranella più di qualche riga. Bisogna sempre guardare fuori, o dietro, per trovare i poeti».
Cosa pensa dell'ambiente letterario italiano attuale?
«C'è un ambiente letterario attuale? Non facendone parte, non saprei. Forse l'ambiente letterario precede o succede all'età degli scrittori: di Manganelli, di Calvino, della Morante, della Ortese, di Landolfi, di Caproni. Gli scrittori non formano ambiente, ma alone. L'ambiente gli si forma intorno come un muschio, è frutto dell'ombra».
E l'editoria?
«C'è di certo un ambiente editoriale, ma forse mancano gli editori. O meglio ci sono, alla testa di minuscole case editrici valorose e fiduciose. Ma per l'ambiente, qui non parlerei di muschio, semmai di savana».
Lei è impegnata su molti fronti: dall'animalismo all'attivismo in favore del Terzo Mondo e del mondo balcanico, alla lotta contro il traffico d'organi, contro Berlusconi, contro la globalizzazione.
«Purtroppo non ho le forze per inseguire tutti i miei furori, ma la grande novità di questo momento è che fanno ormai tutti parte di un unico movimento, si raccolgono in un solo infinito corteo, quello che sfilava pacificamente massacrato per le strade di Genova».
Come ha vissuto i fatti di Genova?
«Come tutti quelli che non c'erano: davanti al televisore. Certo, la morte di Carlo Giuliani non è il delitto Matteotti, ma spero che nessuno se ne vada sull'Aventino. Si dice tanto che non c'è più differenza fra destra e sinistra: nei governi forse non molta, ma nei popoli sì. Il popolo di Seattle, oggi, è il popolo della sinistra. Vorrei che fosse il mio popolo». Un popolo di innocenti Pàcari? «Sì, di Pàcari e di cani bastonati».