Atelier D'Annunzio
Architetto, disegnatore di tessuti e sarto lui stesso. Lettere e documenti ritrovati mostrano un'immagine inedita del vate d'Italia che vestiva d'eleganza statue e nobildonne
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“La Marchesa Casati” è il titolo della sfilata che John Galliano ha fatto per Dior all'Opéra di Parigi il gennaio scorso. Nel volume fotografico ora si legge, stampato a grandi caratteri: “Si ringrazia Anna Maria Andreoli”. Che è una grande esperta italiana di D’Annunzio, docente universitaria e per di più presidente del Vittoriale. Una sinergia di spregiudicatezza rara, la collaborazione tra l'eccentrico enfant prodige della moda franco-britannica e l'austera scrutatrice di carte dannunziane. Le abbiamo chiesto di parlarci di D'Annunzio partendo dal microcosmo della sua casa-simbolo, per ripercorrere l'itinerario che ha portato fino a lui la moda di questa fine-secolo, e non solo quella degli stilisti. E' recente il ricordo della declamazione di una lettera d'amore di D'Annunzio a Barbara Leoni, fatta davanti alle telecamere dei TG da un commosso Walter Veltroni, Ministro dei Beni Culturali, per annunciare l'acquisizione di 77 lettere inedite e di una quantità di altro materiale “tale da formare quasi un secondo Vittoriale”, come spiega soddisfatta la professoressa Andreoli, di ritorno da Gardone Riviera, dove il 26 maggio ha aperto al pubblico una grande parte dei giardini di D'Annunzio, chiusi da decenni.
Professoressa Andreoli, com'era la vita quotidiana di D'Annunzio al Vittoriale?
La quotidianità di D'Annunzio è all’insegna della massima ricercatezza. Dal calamaio alla penna, all’orologio, agli occhiali, ognuno degli oggetti usati per la vita, che D’Annunzio aveva voluto “inimitabile”, serve anche come messaggio. Siamo abituati da decenni, nel Vittoriale, a vedere i suoi oggetti assemblati in un bric-à-brac senza senso, ma, se l'ordine viene ricostituito, ci si accorge che tutto ha un significato, che tutto è simbolico, che tutto parla. D’Annunzio non faceva la sua casa per sé, ma per comunicarla.
Comunicarla a chi, se era una specie di eremo?
Al popolo italiano. Il Vittoriale, con le sue mura, vie, piazze, malgrado le pose di D'Annunzio, non era affatto un eremo. Era già visitato, col padrone di casa ancora in vita, da scolaresche in pullman. Addirittura un giro d’Italia si fermò al Vittoriale, con vantaggi turistici per tutta la zona. Ma, soprattutto, D'Annunzio gremiva la sua cittadella simbolica di impliciti messaggi destinati allo Stato italiano. Il quale, fra l'altro, si accollava i costi della sua Fabbrica. E più D'Annunzio mostrava a Mussolini che la sua dimora era bella, lussuosa, monumentale e importante, più chiedeva denaro per costruirla.
E quanto denaro spendeva per il Vittoriale lo Stato fascista?
Lo rivela la documentazione, che D’Annunzio ha difeso in modo maniacale, conservando tutto, anche l’inconservabile, nell'edificio degli Archivi da lui disegnato insieme all'architetto Maroni — l'Archivio Rosso e l'Archivio Verde, dalle pareti scorrevoli, simili a paraventi giapponesi. E' così, dalla corrispondenza domestica e commerciale, che ricostruiamo non solo le spese ingenti, per le grandi opere architettoniche, ma anche quelle minute, quali fiori comprava, quali specie di piante ordinava al giardiniere, quali cibi e di quale colore faceva preparare dalla cuoca, quale e quanta frutta consumava.
Quale e quanta, per esempio?
Fragole gigantesche, pesche fuori stagione, primizie esotiche ordinate direttamente dalla California. Ma soprattutto, la frutta aveva una funzione ornamentale. Doveva essere sistemata dall’architetto.
Vuol dire che c’era l’architetto della frutta?
Certo, l’architetto della frutta era l’architetto Maroni.
Quindi la quantità doveva essere imponente.
Oh, sì, gli Archivi, appunto, ci hanno conservato le fatture. Anche cinquecento lire al giorno.
E a quanto equivale oggi?
Milioni... sì, diciamo, almeno più di un milione al giorno, solo di frutta.
Qualche altra scoperta che ha fatto negli archivi.
Per esempio, nessuno sa che il famoso bagno blu, il bagno personale di D'Annunzio, con quell'incredibile vasca geometrica, è opera di Gio’ Ponti. Il disegno era firmato, sì, da un certo architetto Giovanni Ponti, ma nessuno si era sognato di identificarlo come il Gio’ Ponti famoso per un design antitetico, si sarebbe detto, a quello che è comunemente considerato il gusto dannunziano. Ma le date coincidevano e lo stile anche, sebbene mimetizzato, occultato dal completo disordine.
Dove ha trovato le prove?
Ho cercato nella casa se c’erano gli oggetti di Gio’ Ponti e naturalmente li ho trovati. Come sarebbe stato possibile, collaborando al Vittoriale, non regalare neanche una tazzina? Ci sono gli oggetti disegnati da Giò Ponti nel periodo precedente la morte di D'Annunzio. E nella biblioteca c’è anche un abbonamento alla rivista di Gio’ Ponti. Il razionalismo è uno degli elementi del Vittoriale, anche se pochi se ne sono accorti. C'è una dimensione sommersa del gusto architettonico di D'Annunzio ed è tutta razionale, anche nel mobilio.
D'Annunzio sarebbe dunque un anticipatore del design moderno.
Certo, e non a caso D'Annunzio è un grande pubblicitario. Questo si sa un po’, per l'Italia, ma non se ne conosce la portata europea. Non si sa quello che D’Annunzio faceva oltralpe. E’ stato, ad esempio, il pubblicitario di Rochas, che era un sarto prima ancora che un profumiere. Profumi e abbigliamento femminile sono stati pubblicizzati continuamente da D’Annunzio, che studiava la tecnica pubbicitaria in una maniera molto seria e precisa. Lo testimoniano, ad esempio, alcune pagine — inedite, scarabocchiate com'era sua abitudine sui piatti di qualche volume della biblioteca o addirittura sopra il testo stampato — sul volto femminile e sul suo mutare con l'avvento del primo piano cinematografico.
D'Annunzio teorico di cinema?
Eccome, e in maniera straordinaria. Ma, così come non poteva andare all'opera senza diventarne — diceva — il quinto atto, ugualmente non poteva andare al cinema senza diventare lui stesso lo spettacolo. E allora, andava al cinema al Vittoriale. Si era fatto una sala di proiezione, con un continuo rifornimento di pellicole, e ogni sera guardava un film. In archivio si conservano dei libretti di mano dell'architetto Maroni, dei menu cinematografici, con su scritto: “Stasera il comandante quale film preferisce?”.
E quali preferiva?
Nei libretti si trovano molti film, anche americani, ma soprattutto è sempre proposto qualche film di Walt Disney. Dal che deduco che i cartoni animati dovevano essere tra i più desiderati. Chissà, studiando il rapporto fra D'Annunzio e i cartoni di Disney si potrebbe anche azzardare un'ipotesi sulla genesi delle strane esclamazioni di cui sono pieni i suoi ultimi romanzi.
Un D'Annunzio appassionato di cartoon, di design, di stile razionalista. Tutto il contrario del “gusto dannunziano”.
Una delle intenzioni di D’Annunzio era di farsi protettore del “disegno d'arte italiano” — così lui chiamava il design, la parola non era ancora stata importata. Al Vittoriale era stata predisposta una serie di botteghe artigiane per lavorare il ferro, l’oro, il bronzo, il cuoio e i tessuti. E anche il vetro. Per un soffio la fabbrica di Venini non si trasferì al Vittoriale. Negli archivi c'è tutto un contratto pronto, e Napoleone Martinuzzi, che era il designer di allora, disegna con la collaborazione di D’Annunzio vasi che ora sono su tutti i libri del mondo. Erano realizzazioni concrete, non sogni. E D’Annunzio si industriava in molti altri modi. Ad esempio dipingeva stoffe e foulards.
Ne restano ancora?
Alcuni foulards restano al Vittoriale, ma i tessuti più importanti sono andati persi, perché, come apprendiamo dalla corrispondenza, li regalava alle gentildonne che lo invitavano a una festa, o diventavano sue amanti, o, spesso, facevano entrambe le cose. Oppure li creava come dono per circostanze solenni, come ad esempio il matrimonio tra Galeazzo Ciano e Edda Mussolini, ai quali regalò la Coperta dello Zodiaco, completa di tutti i segni, che aveva descritto nel Piacere. Anche Andrea Sperelli, nel romanzo, l'aveva dipinta di sua mano. D'Annunzio sceglieva i tagli di stoffa e poi li dipingeva in modo che se ne confezionassero degli abiti, fornendo ai sarti indicazioni specifiche.
E non ci sono casi, diciamo, di memoria iconografica per questi abiti confezionati?
No. Edda Ciano è morta da pochissimo e mi dispiace di non avere fatto in tempo a interrogarla, ma penso che gli eredi debbano avere conservato quel dono. Non è possibile buttare via una cosa del genere. D’altronde, ne dà notizia l'epistolario di D’Annunzio e Mussolini: “Mando per Edda un tessuto da me dipinto e vorrei che fosse confezionato”.
Non solo architetto, pubblicitario, grafico, disegnatore di tessuti, ma sarto lui stesso, quindi.
Certe dame eleganti — e D’Annunzio ne ha frequentate parecchie — venivano da lui accompagnate negli ateliers parigini. Le descrizioni di quegli ateliers restano nei carteggi e di qui è partito John Galliano nel dedicare in gennaio la sfilata di Dior al rapporto di D’Annunzio con l’eleganza.
E quale era, per D'Annunzio, l'ideale di eleganza?
Le signore che amava vestire erano sempre alte e magre. Dopo un '800 di rotondità femminili, è D'Annunzio, in Italia, a lanciare il tipo della donna androgina. Che nasce peraltro dalle sue competenze di storia dell’arte.
E che oggi è il tipo della fotomodella.
Già, della mannequin. E' D’Annunzio a parlare di mannequins, fin da ventenne, dal tempo delle cronache giornalistiche. Ha usato per primo questa parola, nelle corrispondenze da Parigi.
Torniamo alla collezione di Galliano per Dior.
Vede, la sfilata intitolata alla marchesa Casati, che si è svolta all’Opéra di Parigi, è stata dannunziana in senso pieno. Galliano non ha fatto solo un'operazione per così dire antiquaria, come molti stilisti di moda adesso, ma ha capito profondamente e fatto propri i princìpi di D'Annunzio. A richiedere la mia consulenza ha mandato ricercatori addestrati, competenti, minuziosamente esperti di D'Annunzio, che avevano passato mesi e mesi a leggerne tutte le opere. Magari tutti i nostri universitari fossero così solerti.
Dunque, una sfilata dotta, quasi erudita.
Intanto c’erano, sparse su grandi tavoli, le copie fotostatiche di tutti i documenti di D’Annunzio sugli ateliers. Ma la cosa filologicamente straordinaria erano le statue dell’Opéra travestite come quelle di D’Annunzio al Vittoriale.
D’Annunzio travestiva le statue?
D'Annunzio si era fatto fare i calchi dei massimi capolavori della scultura, dai greci a Michelangelo. E interveniva su di loro personalmente. Alle statue greche dipingeva le labbra col rossetto e metteva fili e fili di collane. Da doratore e patinatore, come si definiva, incoronava di capelli d'oro le teste degli angioletti. Da esperto di stoffe drappeggiava i nudi virili di Michelangelo con tessuti di Fortuny, o con scialli trapunti, o con preziosi tessuti turchi, dono personale, sembra, di Ataturk. Erano installazioni fantastiche, in cui fra l'altro il rivestimento valeva molto di più della statua. E dato poi che il bianco del gesso gli dava fastidio, faceva infusioni di tè e caffè e li spargeva con le dita, per sporcarlo e antichizzarlo.
E John Galliano lo ha imitato.
Certo. Vedendo nelle foto d'epoca le statue di D'Annunzio vestite di foulards si dev'essere chiesto: “Come mai queste cose sono vestite?”. Ma poi dev'essersi detto: “Comunque, sono vestite benissimo”.