Lévi-Strauss, consigli per il Duemila
Il sacro, la natura, la «famiglia» uomo-animali: il Grande Appartato si confessa
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Domanda. Professor Lévi-Strauss, oggi la scienza può clonare gli individui. Per ora gli animali, in futuro chissà. Lei che ha studiato l’identità, che cosa pensa di questa possibilità di perpetuare l’esistenza degli individui?
Risposta. Voglio confidarvi un segreto: non ho alcuna percezione della mia identità personale e non mi riconosco assolutamente in ciò che sono stato nel passato. Quindi è un problema che non mi sconvolge più di tanto. Mi sembra che si stiano esagerando enormemente le cose: tra noi e la clonazione di esseri umani intercorrono ancora secoli, se non addirittura millenni, sempre che la si faccia davvero. D’altra parte, la clonazione degli animali non è poi così differente da un parto gemellare con possibile differenza d’età tra i due gemelli. Affaticare lo spirito con problemi di questo tipo mi sembra dunque solo un errore.
In riferimento alla «mucca pazza», lei ha parlato di forme di cannibalismo...
La vicenda è questa. Negli anni attorno al 1950 venne scoperta in Nuova Guinea una malattia sconosciuta, ma chiaramente imparentata con il morbo di Creuzfeldt-Jakob, diffuso invece in Occidente. Gli antropologi hanno allora ipotizzato che la malattia potesse provenire da alcune pratiche di tipo cannibalico: le donne, lavorando i cervelli umani, sarebbero rimaste contagiate e avrebbero poi contagiato i loro congiunti, in particolare i bambini.
Negli Stati Uniti si aprì un ampio dibattito. Alcuni miei colleghi approfittarono dell’occasione per negare l’esistenza stessa del cannibalismo, fino ad affermare, provocatoriamente, che vi avrebbero creduto solo il giorno in cui qualcuno avesse loro potuto dimostrare che sono le pratiche cannibaliche a diffondere in Francia il morbo di Creuzfeldt-Jakob.
Ora: è bastato attendere qualche anno perché apparissero in Francia e in Gran Bretagna dei casi particolari della malattia, dovuti all’introduzione nell’organismo di ormoni della crescita tratti dal cervello umano. E, dato che questi ormoni erano destinati ai bambini, la cui crescita non era stata abbastanza veloce, e le altre sostanze a donne con problemi di sterilità, abbiamo visto riproporsi esattamente il caso della malattia della Nuova Guinea, che colpiva soprattutto donne e bambini.
Suo nonno era violinista, suo padre pittore. All’università lei è stato compagno di studi di scrittori e di filosofi, come Simone de Beauvoir o Merleau-Ponty. Ma ci saranno state delle preferenze tra le diverse materie di studio...
Purtroppo non ho mai avuto delle preferenze, meglio, ne ho avute troppe. Avete ricordato il ruolo della musica e della pittura nella mia famiglia. Tutto ciò risvegliava la mia curiosità. Volevo diventare un compositore e desideravo fare il pittore. Così ho tentato di comporre della musica e ho dipinto parecchio. Insomma, durante tutta la mia infanzia mi sono disperso in molte cose e ho trascorso l'adolescenza in preda a troppe curiosità, senza mai arrivare a una preferenza precisa. Se ho finito per orientarmi verso la filosofia, è solo perché non sapevo che altro fare.
Come ricorda l’ambiente universitario degli anni precedenti il ’68, un ambiente da tanti magnificato e mitizzato rispetto a quello successivo.
Sì... l’ambiente universitario di allora oggi mi sembra quasi mitico... All’epoca la Sorbona non contava più di duemila studenti, rispetto alle decine di migliaia di oggi. La vita universitaria era un vero lusso intellettuale e anche materiale. Le aule non erano mai troppo affollate, le attrezzature erano buone e vi era la possibilità di un contatto diretto con tutti i professori. Alla luce dell’esperienza posteriore, sembra un’epoca benedetta.
Dopo la laurea l’avevano chiamata all’università di San Paolo del Brasile. Potremmo dire che «Tristi tropici», con questa sua straordinaria libertà di scrittura, sia stato reso possibile dal taglio col mondo accademico?
Direi che il «taglio» di cui parlate è dipeso molto meno dalla mia formazione che non dalle vicissitudini della mia carriera professionale. Se mi sono sentito «libero» con Tristi tropici è perché, per diverse ragioni, ho avuto l’impressione che la mia vita ricominciasse da zero. Per di più ero assolutamente convinto che non avrei mai intrapreso una carriera universitaria, tanto più che ero già stato candidato per due volte al Collège de France ed ero stato sempre superato da altri. Allora mi sono detto: «Non ho più nulla da temere: posso lasciarmi andare e scrivere tutto ciò che mi passa per la testa».
In Italia è appena stato pubblicato un libro con le sue bellissime foto del Brasile («Saudades do Brasil», Il Saggiatore). Gliene mostro una e le chiedo se di quel viaggio ricorda qualcosa.
Oh sì... quando guardo questa foto, che ho preso io stesso con l’autoscatto, la cosa che mi commuove di più, il mio ricordo più caro, è la piccola scimmietta accosciata sul mio stivale... Era una femmina... l’avevo battezzata Lusinda. È stata uno dei grandi amori della mia vita...
Purtroppo, quando ho lasciato il Brasile, ho dovuto separarmi da lei, perché se l'avessi portata in Europa il nostro clima l’avrebbe uccisa.
È vero che questa scimmietta apparteneva a una bambina?
Sì, era di una bambina nambikwara. Mi pare addirittura che la si veda... sì, eccola qua: Lusinda sulla testa della sua prima padrona. Vi posso forse raccontare anche un aneddoto che riguarda la piccola Lusinda. Mi avevano chiesto il permesso di fare di Tristi tropici un’opera lirica e io avevo dato la mia autorizzazione perché della cosa non m’importava molto. L’opera fu rappresentata - senza successo, credo - a Strasburgo. Un critico scrisse che quella non poteva essere una vera opera, perché mancavano le donne. Allora mi dissi che se avessi dovuto ricavare io stesso un’opera da Tristi tropici ci avrei messo una donna e quella donna sarebbe stata Lusinda.
Un grande scrittore dell’Ottocento, Joseph Gobineau, preconizza la fine del mondo e parla di quest’epoca «invasa dalla morte, il cui globo, divenuto muto, continuerà, ma senza di noi, a descrivere nello spazio impassibili orbite». Ecco ci chiediamo se siamo alla vigilia di questa epoca.
È una frase davvero mirabile. No, io non penso che quest'epoca sia vicina. L’astrofisica ha fatto dei progressi dal tempo di Gobineau, che forse pensava che ciò sarebbe potuto accadere nel giro di qualche migliaio di anni. Oggi noi pensiamo invece a scala di milioni e miliardi di anni, a meno che, beninteso, la specie umana non abbia a scomparire completamente, cosa che dopotutto non è affatto impossibile, né inconcepibile. I dinosauri e altre specie animali sono scomparsi 500 milioni di anni fa. Perché mai la specie umana non dovrebbe estinguersi anch’essa completamente? Ma questa scomparsa non è oggi all’ordine del giorno.
Come giudica questo spirito apocalittico, questo nuovo millenarismo, questa «new age» che pervade la fine del secolo?
Ma voi credete che tutto ciò sia davvero nella coscienza della gente? No, è una trovata commerciale e giornalistica.
Oggi si condanna il razzismo, ma forse c’è anche qualcosa da imparare dalla considerazione della razza.
Il razzismo si è reso colpevole di crimini tanto mostruosi che oggi si tende ad assumere sistematicamente la posizione opposta, e con ragione. Ma un antirazzismo semplicistico finisce per dare più armi al razzismo di quanto non si pensi, perché si sforza di negare delle cose evidenti e di buon senso. Antropologi e genetisti sono tutti d’accordo a dire che non esiste un destino particolare per ogni gruppo umano e che nessun gruppo è condannato dai suoi geni a perpetuare per sempre gli stessi caratteri o gli stessi difetti e che tutto cambia col tempo. Ma concludere affrettatamente che tutti i gruppi umani sono identici e intercambiabili è assurdo e pericoloso perché va contro il buon senso. Come ha affermato una volta l’Unesco, dopo tutto è l’evidenza dei sensi a indicarci che un nero dell’Africa non è identico a un indiano d’America o a un asiatico. È però necessario respingere il razzismo in quanto dottrina biologica che sostiene che il patrimonio genetico di ogni gruppo umano è specifico e che da questo patrimonio derivano un certo numero di caratteristiche che gli appartengono per l’eternità. I diversi gruppi che si dividono la superficie della Terra, per effetto della loro storia, delle loro condizioni di esistenza, delle idee, hanno certe caratteristiche che forse non sono quelle che avevano un secolo fa e non sono certamente quelle che avranno fra un secolo. Ciò nondimeno gli uomini attualmente sono lo stesso diversi gli uni dagli altri.