Anche i veneti sono figli di Enea
Lo storico Andrea Giardina nega in un saggio le ragioni etniche del secessionismo
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Sono plausibili le rivendicazioni etniche opposte dagli estremisti della Lega all'appartenenza nazionale? Mentre i giornali continuano a parlare della presa del campanile di San Marco, da Laterza, esce L'Italia Romana. Storie di un'identità incompiuta, una riflessione sulle origini dell'identità italiana. Autore, uno dei massimi storici di Roma antica, Andrea Giardina, allievo ed erede di Santo Mazzarino, che racconta la storia dell'Italia romana rifiutando l'idea di nazione, o di quasi-nazione.
Professor Giardina, lei applica all'Italia antica il concetto di «identità incompiuta» e non parla di una «storia» ma di «storie». Qual era in antico lo statuto della Padania?
«Augusto divise quest'area, come il resto della Penisola, per regioni amministrative: la Transpadana, che prendeva parte dell'odierno Piemonte e della Lombardia, la Liguria, l'Emilia, la Venezia. Una Padania in senso lato non esisteva».
I secessionisti padani si definiscono «veneti» richiamandosi, in opposizione a Roma, all'antica etnia.
«Virgilio, il più grande poeta romano, era di Mantova. Padova era la città di Livio, e dove si può trovare uno storico romano più romano di Livio? Sul piano etnico, i Veneti erano l'unica popolazione d'Italia alla quale i romani riconobbero la discendenza troiana, quindi una consanguineità con loro, discendenti di Enea. Sul piano storico, l'inserimento dei Veneti nel dominio romano fu tra i più indolori. Parlano di un'originaria oppressione romana, invece pensi che le prime tracce di interventi politici romani nel Veneto sono arbitrati richiesti dalle città venete in litigio tra loro. Non è significativo?».
Bossi rivendica al popolo padano, in antitesi all'eredità romana, un'identità «celtica»: i padani sarebbero «Galli».
«Guardi, questa storia della discendenza gallica dei padani di oggi è folle. Già in antico l'area padana era un miscuglio inenarrabile di popoli: celti, veneti, liguri, etruschi, latini e poi tutti gli altri venuti dopo».
Nel suo libro, però, trova posto anche il concetto di etnicità fittizia.
«Certo, si potrebbe rispondere che per questo tipo di etnicità fittizia, valorizzata a fini ideologici, sentimentali, non conta la dimostrazione scientifica ma quello che la gente vuol credere, e cioè la passione. Questi richiami razziali, queste petizioni di etnicità - siamo celti, siamo ariani - da sempre prescindono dalla storia. Discendono dalla volontà, non dalla ragione».
Ma nella storia hanno spesso funzionato, se così si può dire, visti i risultati.
«No, nel caso dei leghisti non potrà funzionare neppure l'etnicità fittizia. I leghisti possono mobilitare il loro "popolo" padano contro Roma, contro le tasse, contro gli immigrati, ma non in nome dell'appartenenza etnica, perché questa manca del minimo riscontro emotivo. Si può suggestionare oggi un padano dicendogli che "Roma è ladrona", ma difficilmente che è un "Gallo". Fa ridere. A prescindere anche dalla storia e dalla logica, il messaggio distruttivo della Lega funziona, diciamo può suscitare interessi, anche passione, ma la pars construens è nulla».
Nella secessione leghista non c'è solo un'implicazione antiromana, ma anche una forte implicazione antimeridionale.
«Per gli antichi il problema Nord-Sud non si poneva nei termini in cui lo poniamo noi oggi perché era diverso il loro sguardo geografico. La nostra visione odierna è falsata dalla carta geografica scolastica, che mette l'Italia troppo in verticale: la verticalizzazione finisce col portare con sé una gerarchia. L'Italia, per gli antichi, era sdraiata: orizzontale, non verticale. Il Nord era il mare superiore, l'Adriatico, il Sud era il mare inferiore, il Tirreno. Se lei avesse detto a un romano che la Puglia è a Sud, l'avrebbe guardata stupito». Lei ha presente la canzone degli Almamegretta, «Figli di Annibale»...
La questione meridionale nasce forse dalla guerra annibalica?
«Sono stati i grandi affaristi romani, i senatori accaparratori di terre ad attuare per primi forme di sfruttamento di tipo coloniale, di destrutturazione e anche distruzione ambientale su aree meridionali della Calabria, della Puglia, della Lucania, che si erano schierate con i cartaginesi. Anche se oggi nessuno sosterrebbe che la questione meridionale ha origine qui».
Ma insomma, visto che l'Italia della sua ricerca non è mai stata una nazione, dove possiamo trovare un punto di riferimento?
«I moderni, quando parlano di nazione e di impero, hanno in mente un processo teleologico: dall'aggregato più piccolo - la tribù, la città - si formano la nazione e poi, come suo coronamento, l'impero. La romanità ha con la nazione un rapporto diverso: non dobbiamo dimenticare che Roma ha avuto un impero, con le guerre puniche, nel III secolo, prima di unificare veramente l'Italia. Questo è il punto».
Nella storia recente, a riflettersi in quello romano, c'è stato un altro impero, quello fascista.
«Il fascismo ha certamente contribuito a diffondere un'immagine di Roma brutale e volgare. Gli antichi romani avevano un senso del comando molto forte, ma non erano né violenti né razzisti, anzi, erano politicamente molto duttili. La loro politica imperiale fu anche di integrazione e di osmosi. Inoltre, Mussolini ha sottolineato la dimensione italica della romanità in una misura non giustificata storicamente. L'immagine complessiva diffusa dal fascismo ha fatto danni sia all'Italia, sia alla storia. L'immagine di Roma come viene citata dai leghisti ne è certo un riflesso. Anche se per giustizia bisogna aggiungere che a confermare quest'immagine brutale hanno contribuito anche i governi italiani che si sono succeduti nel dopoguerra. Epoca in cui, peraltro, il Veneto era una grandissima riserva di voti democristiani».
L'Italia non ha mai conosciuto autonomie di tipo federale?
«Roma non ha mai cercato di attuare in Italia il federalismo perché il rapporto fondamentale era tra "la" città e "le" città. La vera eredità romana è l'autonomia cittadina. E questa è la carta che si doveva giocare anche oggi, a mio avviso, in risposta alle istanze della Lega, e che non è stata ancora giocata».
A quale conclusione porta il suo libro?
«Se da un libro di storia ci si aspetta un messaggio, quello del mio libro non è solo pessimistico: è anche parzialmente ottimistico. La parte compiuta della nostra identità nazionale ci rende riconoscibili agli altri e a noi stessi. La parte incompiuta può aiutarci nell'incontro con le realtà internazionali, con l'Europa».