Il viaggiatore degli imperi
Incontro con William Dalrymple che ama le mescolanze e cerca il sacro dall’Athos al Kerala
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E’ la prima volta che torna a Roma da quando, adolescente, veniva a trovare suo fratello che studiava in seminario. “I miei gusti, e in particolare quel gusto che mi ha portato ai mosaici bizantini, credo sia nato qui. Visitare tutte le chiese, tutte le catacombe, i Musei Vaticani, ha segnato la mia adolescenza. Voglio rivedere Sant’Agnese, San Clemente, i monumenti paleocristiani che non ho più rivisto da allora. Roma ha influenzato il mio amore per Bisanzio”.
“Bè, dopotutto ha influenzato anche Costantino, se ha fondato una Seconda Roma. Benvenuto nella Prima”.
William Dalrymple è un aristocratico scozzese letteralmente riplasmato dai più di vent’anni di vita in India con la deliziosa moglie Olivia Fraser, a sua volta discendente dagli antichi e nobili lombi di quei Fraser, la cui indofilia rimane leggendaria nella storia della colonizzazione britannica fin dal Settecento. Lui, l’intraprendente ventenne che fresco di Cambridge aveva raccontato in In Xanadu il suo viaggio sulle orme di Marco Polo, il trentenne dall’aria furba e dai chiari occhi ammiccanti di cui avevamo guardato con curiosità la foto quando era uscito Dalla montagna sacra, il libro che lo ha consacrato a un culto elitario e globale, somiglia sempre più a un Buddha. La testa lustra e sorridente, il ventre rotondo sotto la camicia azzurra aperta sui pantaloni stinti, i piedi scalzi che sfila in continuazione dalle esauste scarpe di tela, è tuttavia un Buddha molto snob. E non ha perso quella che ha sempre caratterizzato i suoi libri: una sprezzante, sprezzata ironia.
D. La mia prima domanda ha a che fare con lo spazio e col tempo. Lei è considerato l’ultimo erede della grande tradizione britannica di scrittori di viaggi: Robert Byron, Bruce Chatwin, Paddy Leigh Fermor. La mia impressione invece, leggendo i suoi libri, è che per lei, a differenza che per loro, viaggiare nello spazio equivalga a viaggiare nel tempo.
R. Mmmm? [Grugnisce in tono interrogativo.]
D. Ha presente quella frase proverbiale di Hartley in The go-betweens? “Il passato è un paese straniero. Laggiù fanno le cose diversamente”. Si potrebbe rovesciare il concetto e dire che i paesi lontani sono il luogo in cui si ritrova il passato. Semplifico la domanda: perché il passato è così importante nei suoi libri di viaggio?
R. Credo che la risposta più onesta sia che sono cresciuto in un’epoca ossessionata dalla storia. E con questa ho imparato a guardare il mondo. Quando guardo un paesaggio, penso alla sua storia. Altri, con altri interessi, penserebbero, non so, al sistema fluviale, alla flora o alla fauna, o se ci si può fare un buon campo da golf. La mia scrittura si suddivide in due filoni: libri di viaggio con un forte senso della storia e libri di storia con un forte senso del luogo. E’ una questione di circuiti, di sensori. La mia macchina produce questa comprensione del mondo. Non è una cosa conscia, non è un metodo. E’ solo il meccanismo che scatta quando guardo le cose e non le ho mai guardate in modo minimamente diverso….
D. … dalla loro dimensione temporale. Quindi è lo spazio che si trasforma in tempo.
R. Diciamo che il mio amore per i viaggi e il mio amore per la storia si nutrono a vicenda in un circolo altamente virtuoso.
D. Il passato aiuta a capire il presente?
R. [Scandisce le parole, abbandonando per un attimo il balbettio tipico dell’inglese upper class] Non credo si possa neanche cominciare a capire il presente, di nessun luogo, senza conoscere il suo passato. Senza capire il modo in cui i popoli hanno interagito, le diverse religioni si sono mescolate, gli imperi sono nati e morti, non si può neppure cominciare a capire il presente di nessun paese. Il libro che ho appena finito di scrivere, e che Adelphi pubblicherà in italiano, è sulla Prima Guerra Afgana: un esempio particolarmente drastico di paese in cui si è rinunciato a imparare dalla storia. La Prima Guerra Afgana segue una traiettoria quasi identica a quella del current mess, del casino attuale. Se solo Tony Blair o George Bush o i loro alleati avessero letto un minimo di storia, non si sarebbero neanche lontanamente fatti coinvolgere nel casino in cui si trovano ora. Anche la più elementare conoscenza della storia afgana poteva, avrebbe potuto farli comportare in maniera del tutto diversa.
D. Nel terzo dei suoi libri, Dalla montagna sacra, lei ha esplorato i territori ex bizantini ripercorrendo l’itinerario di viaggio del Prato spirituale di Mosco, un monaco del sesto secolo, e narrando il destino di quei luoghi in un continuo cortocircuito tra passato e presente. In un articolo sul Guardian di poco successivo all’11 settembre, pronunciandosi sul cosiddetto scontro di civiltà e denunciando la “virulenta islamofobia” della stampa anglosassone, lei non ha citato un esempio tratto dal presente, ma quello di Giovanni Damasceno, il grande padre della chiesa bizantina, che ha definito il massimo teologo dell’antica chiesa cristiana, la cui speculazione dottrinale si è sviluppata in pieno territorio arabo.
R. Nel monastero di Mar Saba, in Palestina, che faceva parte del califfato, la cui tolleranza verso i cristiani, così come verso le altre minoranze religiose, è ben nota agli storici. Damasceno, cresciuto appunto a Damasco, il fulcro del nascente mondo islamico, era convinto che l’islam non fosse una nuova religione ma una variazione sul tema cristiano. E in effetti i legami tra cristianesimo, giudaismo e islam sono così profondi e intricati che più si impara la storia più gli occasionali scontri che oppongono l’uno all’altro cominciano a sembrare molto più una guerra civile tra diversi rami della stessa tradizione che uno scontro di civiltà.
D. Parlando del current mess, dell’attuale casino, non crede allora che abbia a che fare col dissolversi dell’eredità di quegli undici secoli di impero bizantino, in cui le religioni e le civiltà in questione si erano permeate a vicenda e fuse l’una con l’altra? Dopo che i due imperi nei quali Bisanzio si era divisa dopo la sua caduta, l’impero ottomano e l’impero russo zarista e poi sovietico, sono caduti l’uno all’inizio e l’altro alla fine del ventesimo secolo, ecco il ventunesimo aprirsi, nelle stesse aree, su un terremoto etnico.
R. Oh sì. Per esempio, credo che ciò che sta accadendo in questo momento in Siria sia in un certo senso il disfacimento finale degli ultimi residui dell’impero ottomano. Il quale basava la sua legittimità e la sua identità sull’essere multinazionale, multietnico e multireligioso. Qualcosa che, come lei dice, aveva ereditato dall’impero bizantino. E che il tempo non aveva cambiato. Ora, ciò che è accaduto dagli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, con le crisi balcaniche — la guerra turco-russa per la Bulgaria, le convulsioni della Grecia dopo l’indipendenza e a cavallo del secolo — e poi, dopo le due Guerre Mondiali novecentesche, con la creazione dell’Armenia e di Israele, è stato il trasformarsi di quell’insieme di paesi multietnici e multirazziali in blocchi monoetnici a monoreligiosi. Tutti gli ebrei sono andati in Israele, tutti gli armeni in Armenia. I bulgari sono andati in Bulgaria e i greci sono rimasti in Grecia e hanno buttato fuori i turchi.
D. E’ accaduto anche l’inverso.
R. Sì, e la Turchia, che era stato un meraviglioso miscuglio di differenti etnie, è diventata al novantanove per cento turca. Ma, voglio dire, è un fatto che quasi ovunque la multiculturalità dell’ex impero ottomano ha dato luogo a singoli stati di unica religione e unica etnia. Il Libano e la Siria sono le ultime due tessere superstiti di questo grande mosaico multiculturale. Ora, il Libano, dopo la guerra civile, si è più o meno frazionato ma è sostanzialmente rimasto un paese unico. In Siria il processo è in corso ora e se pensiamo a ciò che è accaduto recentemente nei Balcani, dopo la dissoluzione dell’impero sovietico e, prima ancora, dopo il crollo della Turchia durante la Prima Guerra Mondale, ci aspettano probabilmente ancora molti orrori.
D. Sono in Siria i Balcani d’oriente?
R. Sì perché in Siria c’è ancora una popolazione molto mista. In ogni villaggio siriano ci sono drusi, yezidi, sunniti, sciiti, alauiti, cristiani, a loro volta scissi in cattolici, protestanti, ortodossi greci, ortodossi armeni. E’ un incredibile macedonia di popoli e ciò che leggiamo ogni giorno nei titoli dei reportage dalla Siria è la conseguenza diretta del definitivo collasso dell’antico mondo bizantino-ottomano. Un mondo eminentemente misto.
D. E programmaticamente. Il melting-pot etnico, la capacità di assimilazione e integrazione delle etnie sono l’imprinting stesso dell’impero bizantino, che non solo non è stato sopraffatto dalle cosiddette invasioni barbariche ma ha fatto dell’integrazione etnica la sua forza politica e anche la sua dinamica sociale, fondata sul continuo rinnovamento delle élites. Ed è così che è diventata la potenza egemone del medioevo mediterraneo.
R. Sì, però io credo che per capire il Mediterraneo bisogna risalire al di qua di Bisanzio e del mondo bizantino-ottomano, e capire bene fino a che punto entrambe le sponde del Mediterraneo hanno ereditato una comune civiltà ellenica. Tendiamo a pensare all’occidente come all’erede dell’antica Grecia. Ma l’islam ha ereditato un’enorme quantità di passato greco e di civiltà ellenica. E questo lo si può vedere molto chiaramente da un punto di osservazione come l’India, da un luogo cioè in cui esiste una civiltà realmente non-ellenica. Quando si va per la prima volta in India, si reagisce subito all’architettura islamica. Perché deriva da principi che ci sono familiari. Le cupole delle tombe di Ravenna non sono un milione di miglia lontane dalle cupole delle tombe di Delhi. Segnano entrambe diverse traiettorie delle tombe della tarda antichità. Ma sono entrambe molto diverse dalle tombe indù. I cenotafi induisti appartengono a una tradizione completamente estranea, che deriva non dalla civiltà ellenica ma da una civiltà completamente diversa, e, peraltro, molto notevole. In un certo senso, per cogliere in pieno la comunanza tra il mondo cristiano occidentale e il mondo islamico bisogna scavalcare entrambi, andare a est e poi di lì guardare verso ovest. Solo così si capisce fino a che punto islam e cristianesimo rappresentino un’unica civiltà.
D. Erede della Grecia e mediata da Bisanzio. Non due civiltà in conflitto. Quindi per occidente lei intende quel mondo mediterraneo forgiato dalla civiltà ellenica che in quanto tale include l’islam tanto quanto il cristianesimo. Un mondo la cui unità si comprende meglio allontanando lo sguardo e spostando il punto di osservazione più a est. E da questo punto di osservazione non si assiste a uno scontro di civiltà, essendo le due civiltà in presunto scontro in realtà parte di una civiltà unica.
R. Concordo.
D. E però lei non ha scelto questa nostra civiltà. E’ andato a vivere in campagna vicino a Delhi. Ha scelto quella “civiltà effettivamente diversa” che è l’India. Il che forse per un britannico o uno scozzese come lei può anche essere una scelta classica. Sa che all’inizio del Novecento, quasi contemporaneamente alle congetture di Friedrich Max Müller sull’arianesimo, Thomas Rhys Davids, il grande comparatista pioniere degli studi di letteratura p?li, aveva avanzato una teoria sull’affinità “razziale” dei britannici con il buddhismo? non crede che il buddhismo, almeno dall’inizio del diciannovesimo secolo, sia diventata la religione globale?
R. [Sghignazza] In California di sicuro.
D. Qui non si parla di increspature di superficie ma dell’onda lunga dei secoli, di quel grande fenomeno che attraverso l’orientalistica dell’Ottocento e Schopenhauer ha dato vita alla filosofia occidentale moderna, all’esistenzialismo, al pensiero filosofico contemporaneo. Comunque sia, leggendo i suoi libri sembra proprio che nei suoi viaggi, siano nello spazio o nel tempo, lei vada sempre alla ricerca di un oggetto principale: il sacro. O meglio, della risposta a una domanda principale: che cosa sia il sacro. Finisce sempre in un qualche monastero, che sia sul Monte Athos o nell’Egitto copto, in una confraternita sufi o in un tempio del Kerala. Lei sembra avere una sorta di laica ma pronunciata sensibilità per il sacro, o per ciò che ne è rimasto nel mondo odierno.
R. La più fruttuosa comprensione dei popoli nasce da quella delle loro convinzioni religiose. Non si capiscono le culture, né gli individui che le esprimono, senza conoscere la loro metafisica. E’ sulle idee sul funzionamento del mondo, così abissalmente diverse fra loro, che si aggregano e modellano le civiltà. Non sono, in questa fase della mia vita, una persona religiosa. Non sottoscrivo, descrivo. Sono partito dal cristianesimo, mi sono appassionato all’islamismo e alle sue forme più mistiche come il sufismo. Oggi mi interessano, più del buddhismo, fedi esoteriche come il giainismo o la religione tantrica, molto poco conosciuta in occidente ma estremamente importante a livello regionale. In Nove vite, il mio ultimo libro, ero preoccupato della reazione dei lettori indiani, molto sensibili alla mistificazione dell’India, a quella che il pubblico occidentale vuole vedere come una Grande Nebulosa Mistica. In realtà, se c’è un paese di gente ambiziosa e materialista è proprio l’India. Un popolo che vuole migliorarsi in senso assolutamente materiale. Non ho mai visto gente più materialista dei miei vicini punjabi a Delhi, con la loro mania dei marchi e del design.
D. Un’ultima domanda. Lei è cresciuto nel paese più civile dell’occidente, è stato educato in una delle migliori università del mondo, ha avuto sicuramente insegnanti fantastici. Eppure, nella sua ricerca del passato e del sacro, non è andato a intervistare sulle loro concezioni del mondo i contadini in Germania o in Olanda, non ha scelto di seguire le orme di un qualche pellegrino medievale a Santiago di Compostela. Ha invece ripercorso quelle di un monaco bizantino, per esplorare i territori che un tempo formavano l’impero di Bisanzio e per spingersi poi sempre più a est finendo comunque per frequentare, come nel suo ultimo libro sull’Afghanistan, quelle aree di irradiazione della civiltà mediterranea che sono sempre state il confine del mondo ellenico, ellenistico e bizantino: le antiche Sogdiana e Bactriana. Sembra che il medium, il confine, il ponte, le interessino quasi più dell’approdo, e che la sua riflessione finisca sempre per ricadere sull’occidente e sulle sue ibridazioni, passate o possibili.
R. Ho anche un’intera collezione di arte Gandhara. Sì, ha ragione. Sono passato dai monaci del sesto secolo agli imperi del diciannovesimo e poi sono tornato indietro agli imperatori Moghul del diciassettesimo, in un percorso a prima vista erratico, ma non è così. C’è un nucleo, che lei ha individuato così percettivamente nelle sue domande: c’è l’interesse per le religioni e c’è l’interesse per il passato e il tutto è però innestato su un circuito spaziale relativamente compresso che va dalla Grecia forse, diciamo da Atene, a Calcutta. E non mi sono in realtà mai mosso di lì, ed è la stessa area di cui ho scritto venticinque anni fa in In Xanadu, e potrei scriverne ancora per molte e molte vite, se mi saranno concesse.