Il dio venuto dall’India per fissare gli occhi sugli abissi dell’uomo
Nel mondo romano i suoi riti erano così diffusi da sollevare inchieste e scandali
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Quando nel 1872 un giovane filologo tedesco, Friedrich Nietzsche, pubblicò la sua prima opera, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, per lo scandalo degli antichisti suoi maestri e colleghi e per la sua gloria futura di filosofo, suddivise non solo lo spirito antico ma lo stesso spirito umano in due forze opposte e simmetriche: l’apollineo e il dionisiaco. Nella sua definizione quest’ultimo era lo spirito dell’ebbrezza, della musica, della frenesia del dio Dioniso, contrapposto ad Apollo, il “dio plastico” della luce solare frontale, della moderazione e del limite, della serenità olimpica. Come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, l’arte, scriveva Nietzsche, nasce dalla dialettica del dionisiaco e dell’apollineo, attraverso una continua lotta e provvisorie, prodigiose riconciliazioni.
Generazioni di studiosi hanno demolito la nettezza di questa polarità, dal cui equilibrio nasceva, secondo Nietzsche, il miracolo metafisico della tragedia attica, finché la forza di un terzo spirito, quello socratico, ne demolì i presupposti, sostituendo la spiegazione razionale del mondo allo sguardo gettato dal pessimismo di Dioniso nell’abisso dell’incomprensibilità dell’esistenza e precipitando la capacità creativa della società greca in un’irresistibile decadenza.
Vero o no, ciò non toglie che questa divinità venuta dall’India sul suo carro trainato da tigri e associata dai greci al vino e alla viticoltura oltreché alla musica e all’estasi di ogni sorta sia rimasta nel mondo antico la divinità misterica per eccellenza. La liturgia dei suoi misteri, di cui le straordinarie immagini emerse oggi dalle viscere di quel passato classico in continua eruzione a Pompei restituiscono figure e momenti cruciali, rappresentava e radunava in sé l’uscita dall’io e la fusione dell’individuo con la natura primigenia del tutto, l’abdicazione temporanea alla razionalità e alla stessa individuazione: i tratti che più infondono alla religiosità classica l’eredità ancestrale della tradizione indoiranica.
Nietzsche riconduceva lo sguardo solare di Apollo a quello dell’“uomo irretito dal velo di Maia” di Schopenhauer. Sviscerare il dionisiaco, ha spiegato Elémire Zolla, significava per lui smascherare anche nel mondo greco il pessimismo, l’“orrore” orientale “che afferra l’uomo quando improvvisamente perde la fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza”. Non a caso la gestazione e nascita “maschile” di Dioniso, cucito nella coscia di Zeus, trova un misterioso parallelo nella tradizione delle Upanishad, dove il dio Soma, suo equivalente indiano, patrono delle bevande inebrianti, è cucito nella coscia di Indra. La condizione dionisiaca si raggiunge quando “a questo orrore aggiungiamo il rapimento estatico”, che noi moderni possiamo comprendere solo attraverso “l’analogia con l’ebbrezza”, ma che è certamente qualcosa di più.
Dioniso, il tirso in pugno, la pelle di cervo indosso, in capo la mitra, fascia arrotolata sulla testa come un turbante indù, è anche l’unico dio che nell’iconografia vascolare greca, in cui le figure sono tutte di profilo, ha la frontalità dello sguardo. I suoi riti, descritti in seguito da Filone di Alessandria, portavano gli adepti “a uscire da sé e scorgere l’oggetto del desiderio”; condizione in parte procurata dall’oppio, come già mostrato nel grandioso Dioniso di Kerényi, che per descrivere l’ebbrezza dionisiaca citava Baudelaire.
Questa iniziazione non è solo rottura del velo di Maia ma anche “buona novella”. La religione cristiana fu percepita agli esordi come soprattutto dionisiaca, col suo sangue e il suo vino, il sacrificio del suo dio e la sostituzione rituale del suo corpo sacrificale, come quando Zeus Padre salvò il figlio Dioniso smembrato dai Titani sostituendolo col capro. Il culto cristiano sostituirà il banchetto incruento di Cristo alla cruenta ferinità di quello di Dioniso, ma lascerà sostanzialmente intatti gli elementi del mistero — l’assunzione del vino, lo smembramento del corpo divino — e proietterà continui rimandi dionisiaci nella sua iconografia, fino alle più minute suppellettili liturgiche, decorate con tralci di vite.
Nel frattempo nel mondo romano, a partire almeno dal II secolo avanti Cristo, i riti estatici, iniziatici e orgiastici che circondavano il culto privato e pubblico del dio dai molti nomi (tra i più noti Bacco, ma anche Iacco, “ululante”, e Libero, “liberatore”) si erano così diffusi da sollevare inchieste giudiziarie e scandali politici: si pensi al Senatus Consultum de Bacchanalibus del 186 a.C., quando l’accusa di cospirazione contro lo stato mise fuori legge i misteri bacchici e, stando alla testimonianza di Tito Livio, fra i membri dell’élite che vi partecipavano vi furono più condanne a morte (e suicidi) che incarcerazioni. Ma, cospirazioni politiche a parte, il culto era penetrato profondamente nella vita, nella letteratura, nella poesia e nell’arte dei romani, come testimoniano le pitture murali dionisiache di Pompei: quelle della Villa dei Misteri e ora la nuova, epocale scoperta della megalografia dell’insula 10 della Regio IX. Il dio del confondersi dell’anima, come scandisce il coro delle Baccanti di Euripide, il dio plurale, come lo definì Proclo, dai volti maschili e femminili oltreché umani e ferini, fu, come racconta Nonno di Panopoli, non solo un liberatore di oppressi ma anche e soprattutto un affrancatore di donne. Il nuovo fregio della Sala del Tiaso di Pompei, emerso a poco più di un secolo da quello dei Misteri, lo conferma con la sua grande caccia delle baccanti e la sua scena centrale d’iniziazione femminile stagliate nella forza rosso-pompeiana del vino e del sangue.