La lectio di Ratisbona che rischiò di scatenare uno scontro di civiltà
L'allora pontefice aveva condannato l'Islam come religione malvagia e disumana, diretta a diffondere la fede con la spada. Usò le parole di un imperatore bizantino, Manuele II Paleologo, senza coglierne forse il verso senso. E scatenò una polemica
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Quando il 12 settembre 2006, nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, Joseph Ratzinger tenne la sua lectio magistralis in seguito nota come discorso di Ratisbona, l’uditorio rimase agghiacciato. L’allora pontefice aveva esordito evocando una condanna dell’islam come religione intrinsecamente “malvagia e disumana”, originariamente diretta “a diffondere la fede con la spada”, per una vocazione jihadista che veniva fatta risalire direttamente a Maometto. Tutti capirono che l’esternazione del papa di Roma, di lì a poi benevolmente definita gaffe, era destinata a suscitare reazioni a catena che sarebbe stato eufemistico chiamare incidenti diplomatici: effetti politici, piuttosto, di gravità immensa, nel momento di massimo lustro della teoria dello scontro di civiltà seguito all’offensiva del terrorismo qaedista “contro i nuovi crociati occidentali”, proprio quando le energie pensanti dell’occidente moderato facevano di tutto per distinguere tra storia e propaganda, tra ideologia dell’integralismo islamico contemporeaneo e civiltà di quell’islam antico che la sua mistificazione politica rivisitava. Ma, al di là del disastro comunicativo, che avrebbe alimentato il polarizzarsi degli opposti integralismi sul rovente scacchiere geopolitico dei primi due decenni del secolo, qualcos’altro apparve chiaro fin dai primi minuti di quel discorso: che Ratzinger non era, come tanti fino ad allora avevano voluto considerarlo, un formidabile studioso.
Aveva usato, per esprimere l’idea di una “cattiveria” di Maometto, le parole di un imperatore bizantino, Manuele II Paleologo, decontestualizzandole e capovolgendone — forse inconsapevolmente — il vero senso. Quella che di lì a poi i commentatori avrebbero considerato la la testimonianza tombale di un’inconciliabilità assoluta tra la religione della cristiana Bisanzio e quella del suo vicino islamico era invece attinta proprio da un dialogo interconfessionale, per la precisione dal settimo di ben ventisei Dialoghi tra un cristiano e un musulmano, in cui la controversia era un genere retorico e non certo l’espressione di un’intolleranza ideologica. L’interlocutore di Manuele II era il dotto direttore di una madrassa: nelle parole di Manuele stesso, un anziano che “non si compiaceva della discordia” ed era anzi eugnomon, cioè non solo saggio, ma “di retta opinione”. L’obiettivo del lungimirante imperatore bizantino non era insultare o sminuire la religione dei suoi pacifici interlocutori, con i quali discuteva su un piano di parità, tanto che il musulmano sosteneva di voler capire il culto cristiano ma di non trovare maestri adeguati a spiegarglielo. Era, piuttosto, esporre la visione molto meno tollerante che dell’islam aveva la chiesa di Roma.
Proprio nelle parole evocate da Ratzinger, Manuele II citava testualmente la traduzione di un trattato latino, il Contra legem Sarracenorum scritto alla fine del XIII secolo dal domenicano fiorentino Ricoldo da Montecroce. Lungi dall’esprimere la propria opinione dell’islam, Manuele II riportava allusivamente le posizioni antislamiche dell’occidente e lanciava un messaggio politico al papato cattolico, non dimenticando che nel 1204 erano stati i crociati a dichiarare contro Bisanzio la guerra santa, mettendo Costantinopoli a ferro e fuoco e spingendo il clero e la popolazione bizantina dalla parte dei turchi.
Il seguito del discorso, a Ratisbona, non fu più confortante per chi di quel pontefice aveva avallato con entusiasmo l’immagine di profondo teologo. Sempre partendo dalle parole di Manuele II, Ratzinger polemizzava con la dottrina “musulmana” dell’assoluta trascendenza del divino e si induceva, per confutarla, a una disquisizione sul Logos menzionato nel prologo del vangelo di Giovanni (“in principio era il Logos”), che interpretava però tout court come “ragione”, riconducendolo senz’altro alla ricerca filosofica socratica dell’antica Grecia, attribuendo a san Paolo “una specie di illuminismo” e tracciando una relazione diretta con il razionalismo dei moderni, tanto da invitare “a questo grande logos, a questa vastità della ragione, i nostri interlocutori nel dialogo delle culture”.
Ora, all’interpretazione delle iridescenze del sostantivo che compare all’inizio del quarto e più filosofico vangelo sono state dedicate centinaia di migliaia di pagine, in un millennio e mezzo di speculazione teologica, dai padri della chiesa alla Riforma e fino ad oggi. Comunque si voglia interpretare il Logos del prologo giovanneo, che sia desunto dall’arsenale semantico giudaico alessandrino o dal sistema di Plotino, che sia ultimo effluvio della sapienza di Eraclito o esalazione del bacino gnostico, che sia Verbo in quanto “parola che resta, pronunciata nello spirito e non percepita attraverso il suono”, come tormentosamente congetturava Agostino, o Sinn, “significato” (dell’essere, dell’esistere), secondo una delle interpretazioni su cui Goethe fa scervellare Faust, che sia, con Borges, condiscendenza dell’atemporale “al linguaggio, che è tempo successivo”, sta di fatto che quel giorno a Ratisbona, non solo per ciò che disse sull’islam ma anche per l’uso che fece del più importante concetto filosofico cristiano, l’elegante figura di Ratzinger si spogliò di quell’abito di colto, sofisticato intellettuale, che pure ritenne di non avere mai smesso.