Il nostro Oriente interiore
Il confronto tra le implicazioni concettuali della fisica quantistica e le discipline euroasiatiche, di cui è profonda conoscitrice, al centro del saggio di Grazia Marchianò
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“La nostra festa sta finendo. Il tessuto senza sostanza di questa visione, le torri coronate di nubi, i palazzi meravigliosi, i templi solenni, il grande globo stesso, tutto quello che conteneva, si dissolve e, come questo spettacolo inconsistente svanisce, non lascia dietro di sé neppure una voluta di fumo. Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”. Citando in Helgoland il più celebre passo della Tempesta di Shakespeare, Carlo Rovelli ha sintetizzato le conclusioni che la meccanica quantistica fa trarre alla scienza contemporanea sul mondo fisico, sul dissolversi della sua sostanzialità, sul sovvertirsi dei princìpi della fisica classica, sul ribaltarsi, nella “paziente, razionale, empirica, rigorosa ricerca della moderna fisica fondamentale”, dell’idea che la visione viaggi dagli occhi al cervello: la realtà si tesse invece in senso contrario, dal cervello agli occhi.
Conclusioni cui già la storia della filosofia era arrivata, se pensiamo anche solo a Schopenhauer. Ma che hanno indotto molti scienziati contemporanei a rivolgersi, come il filosofo ottocentesco folgorato dalla traduzione latina delle Upanishad, alle filosofie orientali: a quelle vie “diversamente maestre” (induismo, buddhismo, taoismo e zen) che già da millenni in Eurasia ritenevano insostanziali i fenomeni, accertandolo però “con la sola forza del discernimento logico e della penetrazione intuitiva” e “aiutando chi vi si affidava ad acutizzare il proprio sentire fino a persuadersi della coincidenza di mente e natura, interno ed esterno, umano e cosmico”, come scrive Grazia Marchianò, che di queste vie euroasiatiche è da sempre rigorosa conoscitrice. Dedica loro un libro (Interiorità e finitudine: la coscienza in cammino, Rosenberg & Sellier, 271 pp., 15 €) prezioso per più versi. Anzitutto perché alle numerose, popolari, spesso ammirevoli (pensiamo al Tao della fisica di Capra) ma in altri casi inevitabilmente amatoriali dissertazioni di scienziati convertiti alle filosofie orientali contrappone una perfetta conoscenza dell’oggetto, assicurata da una formazione filosofica, da una disciplina accademica e da una ricerca esistenziale di implacabile solidità. Cosicché il confronto, che si snoda lungo il libro, tra le implicazioni concettuali della moderna fisica quantistica e le antiche dottrine dei veggenti vedici, dei maestri del Tao, dei buddhisti incamminati sulla via del risveglio, dei monaci zen — senza escludere quelle dei presocratici greci, dello stesso Platone e di certi mistici tardoantichi e bizantini, situati, come Marchianò scrive, “alla stessa latitudine mentale” di quegli Orienti — sfugge a ogni indulgenza o imprecisione, è storicamente fondata e teoreticamente impeccabile.
Arnold Toynbee aveva profetizzato che il grande evento storico del ventesimo secolo sarebbe stata la definitiva penetrazione del buddhismo in Occidente: una “filosofia universale”, come lo aveva definito Einstein. Secondo il quale “l’unica cosa comprensibile nell’universo è che è incomprensibile”. Se, per citare Ian Baker, autore del classico Dietro le cascate, riusciamo a vedere soltanto una minima porzione del mondo fisico che ci circonda, poiché, come per diverse vie hanno mostrato Penrose e Hameroff nei loro studi sulla mente e sulla coscienza, è quest’ultima a dare forma alla realtà nel momento in cui l’esperimento osservativo modifica il modo in cui le particelle iperminime si manifestano nel vasto campo della probabilità, già i praticanti tantrici, osserva Marchianò, svincolavano, nell’esercizio della meditazione, la percezione oppositiva di soggetto e oggetto. Se nel buddhismo di Nagarjuna l’uomo “dalla mente unificata” sa che la Verità è non-duale e che nulla esiste fuori dalla mente, la stessa labilità del confine tra soggetto e oggetto è accertata dagli esperimenti della meccanica quantistica sull’interconnessione tra osservatore e osservato. Se nello stato meditativo in cui secondo i taoisti “si caotizza la mente” si vive un’esperienza non lontana da quella del paradosso di Zenone su Achille e la tartaruga, un fenomeno simile è osservato in alcuni esperimenti sugli ioni di berillio, dove le transizioni di livello indotte dalla stimolazione progressivamente diminuiscono, e se fosse possibile compiere una quantità indefinita di misurazioni l’obiettivo scivolerebbe sempre più avanti sino a farsi irraggiungibile.
Ma il libro di Marchianò non si limita a censire i punti di tangenza tra le implicazioni della rivoluzione scientifica contemporeanea e le tradizioni orientali. Di queste ultime, e dei più seri e importanti studi che le hanno analizzate per secoli e illustrate al pensiero occidentale, la seconda parte del libro fornisce un’esposizione tanto sintetica quanto sistematica e rutilante. Dalla settima lettera di Platone a Roerich e Gurdjeff, da Marius Schneider a Kerényi, da Bohm a Krishnamurti, da Izutzu a Nishitani Keiji, da Richard Baker a Hervé Clerc, risalendo al lavoro ecdotico dei grandi orientalisti, Max Müller, Giuseppe Tucci, Granet, Stein, Jullien, Segalen, per approdare a Simone Weil e, tornando in Grecia, alla meravigliosa riflessione buddhista sul mito di Sisifo vergata nel 1928 dal Conte Kuki (“Sisifo dovrebbe essere felice”…), che puntualmente anticipa la lettura esistenzialista di Camus.
Né Marchianò si limita ad analizzare le implicazioni puramente teoriche della “nuova”, in realtà antichissima, convergenza tra Oriente e Occidente sigillata dagli sviluppi del pensiero scientifico, ma ne affronta anche la ragion pratica, a cominciare dalla questione ecologica: dall’antica ecosofia confuciana, basata sull’idea di “mente naturale”, dall’attuale esigenza di una “spiritualità ecologica per costruire una cosmologia vivente e vitale”, che il principio d’interconnessione tra mondo animale, vegetale, minerale, di indistinzione tra soggetto e oggetto, di fusione tra coscienza e materia solleva, e che non può non essere al centro del divano orientale-occidentale, scientifico e umanistico, di un’epoca in cui non è soltanto la filosofia naturale, ma la natura stessa a sollecitarla.