Estasi. Il desiderio di Dio
Articolo disponibile in PDF
Teresa è tornata. E noi possiamo finalmente tornare a trovarla, emergere dal traffico romano di largo Santa Susanna, tra piazza Barberini e Stazione Termini, e immergerci nella luce instabile, visionaria che il lungo restauro della Cappella Cornaro, nel transetto sinistro della chiesa di Santa Maria della Vittoria, ha ripristinato com’era stata concepita a metà del Seicento da Bernini, quando ultimò quella che considerò la sua opera migliore. Un’opera estrema, poiché estrasse dalla materia della pietra l’uscita stessa dal mondo materiale: l’estasi.
Ek-stasis, in greco “fuoriuscita”. Per Teresa de Ahumada, mistica, scrittrice, dottore della Chiesa, nata ad Avila da una nobile e colta famiglia della gran Spagna cinquecentesca, tutto cominciava con una specie di urlo alle orecchie. Poteva durare pochi minuti o tutto un giorno e l’anima, scrive Teresa, si comportava come un ubriaco, ma non tanto da perdere i sensi. Era un rapimento, spiega, non uno svenimento. Una sospensione in cui si dispiegavano inspiegabili visioni. Lo splendore della visione era come luce infusa, come quella che avrebbe il sole se fosse “schermato da tessuti olandesi”.
Il rapimento, o estasi, riferisce Teresa, toglie il fiato, le mani e il corpo si raffreddano, alcune volte non si sa neppure più se si respiri. Si esce dal corpo, ma la persona non muore. Con la velocità con cui il proiettile esce dall’archibugio quando gli si dà fuoco, si alza un “volo interiore”, che pur non producendo rumore provoca un movimento così evidente da non poter essere scambiato per illusione. Quando l’anima è in questo stato, racconta nella sua autobiografia, e brucia in se stessa, accade spesso che le arrivi, non si sa come né da dove, un colpo simile a una saetta di fuoco. Non dico sia proprio una saetta, si corregge, ma qualunque cosa sia non viene chiaramente dalla nostra natura.
In questo stato, spiega Teresa, la persona avverte una solitudine particolare. Si sente come a mezz’aria, non può salire né scendere. Può sembrare veramente morta e questo non deve meravigliare, perché il pericolo di morte è reale. Il fenomeno, anche quando dura poco, lascia tutto il corpo slogato e i polsi completamente rilasciati. Ormai non si tratta più di morire una volta sola, ma di vivere stando sempre in punto di morte.
Così appare, nella cappella di San Francesco a Ripa, la Beata Ludovica Albertoni, seconda estasi berniniana; così la Maddalena in estasi caravaggesca. E così, semidistesa sulla nuvola della sua levitazione, né morta né viva tra le pieghe “contorte e vorticose” (Gombrich) di una veste che ricade senz’ordine, quasi avvolgesse un vuoto, sotto la dura pioggia di raggi dorati, appare Teresa nella cappella di Federico Cornaro. E’ lì lì per essere transverberata dall’Eros divino, che con la sua lancia di fuoco — come pure si legge in uno dei passi della sua autobiografia — la penetrerà infliggendole un dolore così bruciante e insieme così appagante da non volerne essere liberata. Una petite mort, si direbbe — una “piccola morte” in senso tecnico.
Lo stesso senso in cui gli antichi chiamavano mikre epilepsia, una “piccola epilessia”, l’orgasmo sessuale. E il dubbio di una componente epilettica, di un ruolo del morbo sacro nel prodursi delle condizioni di ekstasis che pervadono non solo il mondo delle sante mistiche occidentali, di Teresa e Caterina e delle tante loro compagne, ma già ben prima il mondo greco classico — l’estasi dionisiaca — è dato dalla posizione del collo. Guardate la Menade di Skopas o il Satiro danzante di Mazara del Vallo. O pensate al collo piegato di lato dei dervisci rotanti immersi nell’estasi sufi.
E’ lunga la storia dell’estasi, quanto quella dell’umanità, sperimentata nei più diversi tempi e luoghi, ma le descrizioni del modo di raggiungerla, e le raffigurazioni dell’atteggiamento che il corpo assume quando l’essere umano è in questa condizione, sono sorprendentemente simili. Che si tratti delle testimonianze sulla Pizia o sulla Sibilla — la cui migliore rappresentazione è forse la Santa Cecilia in estasi di Raffaello — o della dettagliata trattazione di Plotino — sulle cui orme invano cercò l’estasi Agostino — o di quel fondersi del microcosmo umano col macrocosmo perseguito dalle discipline di meditazione orientali — buddhiste e non solo — o della routine delle accademie platoniche tardoantiche e bizantine, prolungate in quelle del Rinascimento, dove l’insegnamento esoterico dell’estasi era specificamente impartito come annullamento di sé e identificazione con l’anima mundi; che sia un’estasi raggiunta in visibile trance, alla maniera antica, o un’uscita da sé più intima, più agostiniana, come quella che produce in noi ogni atto di ascolto, di contemplazione, di sospensione — qualunque la nostra estasi sia, Teresa è lì a ricordarci — se emergiamo dal traffico di largo Santa Susanna, se ci fermiamo a trovarla — che è una condizione umana e possibile.