Il primo cronista del vero Gesù
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Chi era Cristo? Il Cristo storico, non quello vertiginosamente teologico, costruito dalla sapienza dei filosofi bizantini tra IV e V secolo come dio-uomo, nel credo dei concili di Nicea e Costantinopoli e nelle condanne, a Calcedonia, delle ‘secessioni’ (haireseis, eresie) che ne ammettevano o solo la natura divina o quella umana. Un’architettura speculativa dipanata in migliaia di pagine e milioni di parole. Il Cristo storico, invece, si contrae in pochissime, nelle fonti storiografiche grecoromane, laconiche e peraltro poco lusinghiere su quel tale “Cresto” venerato “quasi fosse un dio”. Due frasi, nella corrispondenza tra Plinio il Giovane e Traiano, sul suo “deplorevole culto”; una menzione in Tacito, costernato all’“erompere” dell’”esiziale superstizione”; un altrettanto sprezzante accenno di Svetonio a quella “razza di uomini d'una superstizione nuova e malefica” derivante dall’“istigatore Cresto”; l’ironia del coevo, ancorché forse spurio, cenno di Luciano (il cosiddetto Testimonium Lucianeum); le aperte contumelie di Celso, dalla corte di Marco Aurelio; e non molto altro.
Testimonianze non cristiane e non certo gradite alla giovane comunità cristiana insediata a Roma. Tutte, tranne una, la più antica, che ha goduto fra i cristiani di allora e i loro discendenti di una comprensibilmente maggiore popolarità: il cosiddetto Testimonium Flavianum, in cui Gesù è definito “sapiente, facitore di mirabilia e maestro di uomini”, capace di attrarre a sé “molti ebrei e molti ellèni”; in cui si menziona la sua condanna alla croce da parte del governatore romano Pilato “su denuncia” dei notabili giudei; e in cui la “tribù dei cristiani che da lui prendono il nome” non solo non è, per una volta, svillaneggiata, ma è segnalata con rispetto.
Perché Flavianum? Perché questo breve testo, che fa parte di una più ampia trattazione storica in lingua greca, le Antichità giudaiche, è scritto da Giuseppe Flavio, sacerdote ebreo dalle ben impiegate doti profetiche, ufficiale delle forze ribelli in Giudea avvezzo al buon uso del tradimento, che deve il suo gentilizio all’essere stato adottato dai suoi stessi nemici, quegli imperatori della dinastia dei Flavi protagonisti della durissima guerra culminata nella distruzione del tempio di Gerusalemme: Vespasiano e suo figlio Tito, che deportarono a Roma oltre centomila ebrei dopo averne fatti fuori oltre un milione. Un genocidio, come scrive Luciano Canfora nel suo ultimo libro (La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato, Salerno, 195 pp., 18 €), in cui narra di questo ebreo émigré e dell’immenso dibattito che lungo i secoli coinvolgerà il suo testo, la sua genuinità o falsità, la sua interpolazione, la sua strumentalizzazione; dunque, in ultima analisi, la sua verità.
Che si fa, qui come spesso in Canfora, epitome di ogni verità storica; della possibilità stessa di determinarla; dell’impatto che la lettura, l’utilizzazione e l’attualizzazione di un testo hanno, lungo la storia, sulla sostanza stessa di quel testo, cui ogni interpretazione aggiunge una dimensione, costituendo un nuovo frammento di verità, valicando lo spazio della propaganda che fin dall’inizio insidia l’attendibilità anche del più onesto degli storici. Quale appunto Giuseppe dichiarava di essere: “Ho consegnato agli imperatori i libri che avevo scritto quando i fatti erano quasi ancora sotto i miei occhi, perché sapevo benissimo di avere detto la verità, e che non sarei stato smentito”. Il fatto che quei libri sulla storia e le tradizioni della terra e della cultura ebraiche si siano tramandati ai posteri quasi interamente, caso unico, sottolinea Canfora, nella letteratura classica, costellata di perdite, naufragi e relitti (da Polibio a Dione Cassio, da Livio a Tacito), si deve proprio, come sintetizzò Wilamowitz, al valore del piccolo brano che vi è, come in un tabernacolo, racchiuso. I posteri in questione altri non essendo che quei primi cristiani, di cui il sacerdote ebreo aveva intuito la capacità di pervadere la società imperiale romana ed egemonizzare di lì a non molto gli ambienti culturali, cui appartenevano le mani dei copisti che portarono in salvo la sua opera attraverso la piena dei secoli.
Nel corso dei quali molti vollero ritenere il Testimonium Flavianum un falso, per ragioni chi filologiche, chi ideologiche; ed è spesso difficile distinguere le due, perché spesso nella storia la filologia si ritrova al servizio dell’ideologia. Ma Canfora, che di falsi se ne intende, e non esita a smascherarli quando sono tali (come ad esempio lo pseudo-Egesippo, pure trattato nel libro), in questo caso ne assevera l’autenticità con le formidabili armi della sua filologia, dopo avere istruito un meticoloso processo e dato voce, convocandoli l’uno dopo l’altro, a tutti quegli altrettanto formidabili filologi che in ogni tempo ne hanno dibattuto.
Canfora ci incanta per la naturalezza affettuosa con cui li interroga, partendo dall’inizio della manipolazione: da quando la prudente captatio benevolentiae di Giuseppe viene messa a frutto dagli apologeti cristiani, poi dai primi padri della chiesa, che lo arruolano, retroattivamente, tra i “compagni di strada”, per arrivare via via a mobilitare tutti quegli spadaccini della critica che sul Testimonium Flavianum si sono sfidati a duello lungo il galoppo del cristianesimo, delle sue lotte, scissioni, eresie; dei suoi scontri con il pensiero laico o con le altre sectae confessionali; degli attriti e delle scintille che questi hanno provocato.
Quanto a Cristo e alla duratura setta che a quel “saggio” predicatore errante si ispirava, la dissezione che Canfora fa del Testimonium, delle sue interpolazioni ma anche delle sfumature del suo dettato originario, ci rivela cosa vi vedesse l’occhio spregiudicato del compatriota ebreo adottato dal potere romano: uno dei tanti creatori di “tumulto” della prefettura ribelle di Giudea, spina nel fianco degli amministratori romani; i cui seguaci, però, per pochi che a Roma ancora fossero, stavano formando un’élite. In effetti, era così. L’occhio di Giuseppe il Traditore “non sarebbe stato smentito”, perché fu politicamente più lungimirante e più profondo di quello di ogni altro storico antico, e fors’anche di ogni altro dei molti profeti fioriti lungo i secoli nella sua terra.