Dalla prima alla terza Roma
Bessarione e l'unione delle chiese
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“Noialtri veneziani, l’impero bizantino l’abbiamo smembrato da vivo, esattamente come prescrivono i libri di cucina quando dicono: ‹‹Il coniglio vuole essere spellato vivo››. Noi abbiamo pelato viva Bisanzio. Abbiamo visto dal 1204, veneziani e genovesi arrivare al Ponto Eusino, nel mezzo del Mar Nero, della riserva di caccia di Costantinopoli”.
Questa cruenta ricetta, con cui il nascente capitalismo occidentale delle repubbliche mercantili cucinò, a partire dalla IV crociata, l’impero di Bisanzio, ci è fornita da Fernand Braudel, il celebre medievista, il grande storico della prima età moderna, nel corso di un contraddittorio celebre avuto nel 1985 a Châteauvallon, in Provenza, con Hélène Ahrweiler, grande bizantinista greca, all’epoca rettore della Sorbona. Un contraddittorio poi entrato a far parte del libro di Braudel noto come Lezione di storia. Citiamone ancora qualche battuta.
Braudel: «Venezia è un po’ il mondo orientale coltivato in serra. Ma è già in tutto e per tutto il mondo occidentale. E i veneziani hanno finito per prendere piede in quest’impero [Bisanzio] più splendente degli altri, persino più splendente dell’Islam, per poi tranquillamente distruggerlo. La fine di Bisanzio data al 1215».
Ahrweiler: «Lei mi vuole spudorata… Sono ortodossa e greca d’origine, è quindi per pudore che non avevo osato finora dire quella verità che lei ci sta enunciando con grande eleganza e altrettanto distacco. Bisanzio è stata distrutta…»
[Interruzione di Braudel]: «Assassinata!»
Ahrweiler: «Assassinata dai suoi correligionari cristiani: Bisanzio, detta la scismatica! E’ questo un divorzio che paghiamo ancora oggi. Perché quando sentiamo dire nelle aule universitarie «è una disputa bizantina» [in Italia si parla di «bizantinismo»], questo significa semplicemente che l’intera storiografia d’ispirazione ecclesiastica, di provenienza gesuitica, assunzionista e simili, conosce male Bisanzio, sulla scorta dello scisma e delle crociate. E allora diciamo finalmente le cose in maniera semplice e chiara: le crociate, forse, hanno trasferito molte più persone in oriente che non le colonie…».
[vivaci proteste dalla platea]
Braudel: «Si difenda!»
Ahrweiler: «Eustazio di Tessalonica dice che nessun numero poteva dare un’idea di cosa fosse effettivamente l’arrivo dei Crociati! Ma noi la sappiamo più lunga [allude all’imposta di passaggio per riscuotere la quale lo Stato centrale bizantino, con tragico automatismo burocratico, inviò i suoi notai a contare le imbarcazioni crociate sul Danubio]. Mi sto riferendo alla Seconda Crociata e non alla Prima…»
Braudel: «Io mi riferisco alla Quarta, ma fa lo stesso…»
Ahrweiler: «Io le metto in fila, una dopo l’altra! E ne viene fuori veramente quella che chiamo la lunga durata della diffidenza. Perché è a partire dalla Prima Crociata che si cominciò a diffidare di tutto ciò che proveniva dall’Occidente, dalle ‘terre barbare’, come dicevano».
L’assalto del 1204 a Costantinopoli da parte dei crociati fu distruttivo in misura ineguagliata. La conquista turca del 1453 fu una catastrofe terribile - ne abbiamo ogni possibile descrizione - ma prevista. Quella del 1204 non lo era. Molti dei manoscritti che avrebbero potuto meglio comporre la nostra conoscenza della tradizione classica andarono certamente perduti per sempre in quell’occasione. Molti dei testi antichi che non possediamo oggi erano conosciuti prima e non furono conosciuti più dopo il passaggio dei crociati da Costantinopoli.
“La lunga durata della diffidenza” è una buona espressione per definire quella irriconciliabilità oggettiva tra l’Occidente e Bisanzio che determinerà nei secoli successivi al fatale 1204 i fallimenti dei vari tentativi, più o meno sinceri, di compromesso tra il papato e la Chiesa Ortodossa, con la prospettiva di una crociata antiturca in cambio della sutura dello scisma del 1054. Fallimento culminato nel Concilio di Firenze del 1439.
La “diffidenza dalla lunga durata” porterà l’ala più forte dell’élite bizantina a preferire i Turchi al Papa, con spirito forse realpolitilker, di certo in accordo con quella parola d’ordine o ritornello che usavano i marinai bizantini del XV secolo: “Preferisco vedere in Città il caffetano turco, piuttosto che la tiara pontificia”.
Nell’ambito della discussione conciliare fiorentina del 1439, a portare alla vittoria l’ala unionista fu la cosiddetta Kehre di Bessarione: la "conversione", il "trasformismo pneumatico" del grande notabile bizantino. Diplomatico, bibliofilo, astrologo, filosofo platonico e anche esperto teologo, Bessarione fu l'ultima, geniale mente politica di Bisanzio. Divenuto cardinale della Santa Romana Chiesa, non ne divenne papa, si dice, solo per un concomitare tutto sommato casuale di circostanze.
L’attitudine turcòfila, non poco realpolitiker, della classe dominante bizantina dell’ultimo secolo era emergente, crescente e si potrebbe dire vincente. La turcofilia aveva compenetrato l’ala più forte dell’élite ecclesiastica anche prima del fallimento del progetto della crociata, seguito alla formale resa dogmatica di Bessarione al concilio di Firenze. Bessarione, allievo di Gemisto/Pletone, era stato sempre antitomista e filopalamita, come si può desumere dai suoi scritti teologici giovanili, anteriori al soggiorno in Italia, che lo rivelano un tipico rappresentante del mondo intellettuale bizantino dell'età paleologa e pertanto un nemico convinto dei teologi latini.
Questi scritti, fino a pochi anni fa ignorati, et pour cause, dalla nostra storiografia, tesa a valorizzare soprattutto l’immagine occidentalizzata di un Bessarione umanista e filolatino, sono stati recentemente ripresi da Antonio Rigo, che inoltre, in uno studio da poco pubblicato, ha portato luce sulla svolta di Bessarione a Firenze e sulle circostanze precise del suo passaggio dal partito degli avversari dell'unione al campo opposto.
Il disinvolto trapasso di Bessarione al campo unionista è forse il massimo esempio di Realpolitik di tutta la storia di Bisanzio. E’ un dietrofront improntato a realismo politico in senso stretto, dato che la spregiudicata alleanza con la curia romana mirava a un obiettivo immediato e ben preciso: il finanziamento, il coordinamento e l’invio di una flotta pontificia per quella che sarebbe stata in realtà, contro ogni aspettativa, l’ultima spedizione antiturca prima della caduta, la crociata di Varna, che effettivamente partì nel 1443, ma si concluse l’anno dopo con una delle massime carneficine della storia.
Quest’esito tragico non era tuttavia prevedibile a Firenze, in quell’inizio d’estate del 1439, quando il realismo politico della nomenklatura bizantina usò come non mai nella sua storia le armi del trasformismo culturale, e nel più impegnativo e sofisticato dei campi in cui il pensiero e la civilizzazione dell’impero si erano esercitati: la teologia, e in particolare la dogmatica trinitaria e la dottrina pneumatologica, concernente lo Spirito Santo.
E’ qui che i nuovi dettagli filologici forniti dalle ricerche di Rigo emergono, se se ne esaminano attentamente le implicazioni, in tutta la loro importanza. La base concettuale, patristico-dogmatica dell’Henotikòs lògos, l’Oratio dogmatica sive de unione pronunciata da Bessarione al concilio, con la sua legittimazione della dottrina latinòfrona sulla processione dello Spirito Santo, non è un prodotto del pensiero teologico di Bessarione, pure esercitato alla dogmatica, ma risulta totalmente ricalcata su una fonte preesistente, almeno altrettanto strutturata, e peraltro ben conosciuta, nonché pochissimo amata, dai teologi bizantini degli ultimi due secoli.
Si tratta dell’opera di Giovanni Bekkos, patriarca di Costantinopoli all'epoca dell'effimera unione di Lione del 1274, il più importante esperimento unionista tentato prima di Firenze, all’epoca di Michele VIII Paleologo, l'imperatore «latinòfrono» e «azimita». L’opera di Bekkos è contenuta nel Migne (PG 141, coll. 613-724) sotto la dicitura Titoli alle parole dei santi da lui raccolte sulla processione del Santo Spirito, ma solo oggi si può constatare quanto strettamente ne dipenda il Discorso di Bessarione.
Nella sua breve opera, Giovanni Bekkos, il patriarca filounionista, che intendeva affermare la processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio, secondo la tesi latina già imperativa al tempo dello scisma del 1054, presentava a sostegno di quella dottrina un florilegio patristico, nel quale compaiono, insieme al famoso passo di Gregorio di Nissa che divenne bandiera di Bessarione, gli altri brani di Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo, Cirillo d'Alessandria, Atanasio d'Alessandria, Giovanni Crisostomo, Teodoreto di Ciro, Gregorio Taumaturgo, Teodoro di Raithou, Epifanio, Tarasio, Sofronio di Gerusalemme, Massimo il Confessore, Giovanni Damasceno, Teodoro Studita, Simeone Metafrasta, Metrofane di Smirne e i canoni del I Concilio di Nicea (Gelasio di Cizico).
Giovanni Bekkos mostrava che le espressioni “dià tu liù” («attraverso il Figlio») e “ek tu liù” («dal Figlio») presenti in quei testi si equivalevano nell’indicare la duplice processione dello Spirito. Come informa la rubrica dei manoscritti, il florilegio era organizzato in tredici capitoli, ciascuno dei quali era preceduto da un lungo sommario dottrinale, esteso dal patriarca. L’opera, ben conosciuta per tutto il XIII e XIV secolo, entrò a far parte delle biblioteche dei maggori teologi (primo fra tutti, Demetrio Cidone) e, dopo il sinodo delle Blacherne, fu oggetto di polemica, specialmente da parte del teologo-guida di Bessarione, il grande Gregorio Palamas.
Palamas, riaffermando la tradizionale posizione bizantina circa il Filioque e sostenendo la processione dello Spirito Santo «a Patre», replicò alle Epigraphài con delle Antepigraphài, refutazione dello scritto di Giovanni Bekkos intesa a mostrare come i sommari redatti dal patriarca fossero in contrasto proprio con i passi dei padri riportati nel florilegio.
Un passo delle Memorie di Silvestro Syropoulos, testimone prezioso degli intricati lavori del concilio di Ferrara-Firenze, spiega il meccanismo con cui il Discorso di Bessarione si formò proprio in contrasto, almeno dichiarato e apparente, con le posizioni del suo teologo di riferimento Palamas. Syropulos, descrivendo i fatti della primavera del 1439, ricorda a più riprese i dissidi sorti nella delegazione greca, che era ufficialmente guidata dall’imperatore Giovanni VIII Paleològo e dal patriarca Giuseppe II, ma in realtà dominata dal partito di Marco Eugenico da un lato e da quello di Isidoro di Kiev, Gregorio Mammis e Bessarione stesso dall’altro. Durante queste accese discussioni di fine aprile sulla processione del Santo Spirito e sul significato delle espressioni “dià tu loù” e “ek tu loù”, presenti nei testi dei Padri, Isidoro di Kiev «trasse dal grembo un libro pieno di alterazioni di ogni sorta e il cui autore era Bekkos» (segue testo greco) e ne lesse alcuni estratti (VIII, 37 = p. 47 dell’ed. Laurent).
Qualche tempo dopo, siamo tra la fine di maggio e gli inizi di giugno del 1439, scrive di nuovo Syropoulos: «Il vescovo di Efeso [cioè Marco Eugenico] aveva iniziato a leggere un passo degli scritti di Kabasilas sulla questione proposta, quando il vescovo di Russia [cioè Isidoro di Kiev] subito lo interruppe: ‘Siamo venuti qui per fare l'unione e la pace, e non lo scisma e la separazione. Vogliamo dunque che si leggano anche gli autori favorevoli all'unione, e non l'autore dello scisma e della discordia’. Il vescovo di Lacedemone [e cioè Metodio] a suo stosegno aggiunse: ‘Chi è per noi Kabasilas? […] Niente ci obbliga ad approvare i suoi scritti’. Il vescovo di Efeso quindi replicò: ‘Allora tanto vale leggere Bekkos!’ Poi, indispettito della loro impudenza e audacia, comprendendo che quasi tutti avevano ormai ceduto ed erano pronti a scendere a patti con il latinismo, tacque».
Dunque, stando al resoconto di Silvestro Syropoulos, non solo il problema della processione dello Spirito e il significato delle espressioni “dià tu loù” e “ek tu loù” presenti nei testi patristici, ma soprattutto il precedente rappresentato dalle Epigraphài di Bekkos, erano diventati argomento di dibattito all’interno della delegazione greca nella primavera del 1439, come si può verificare anche negli Acta graeca del Concilio, pubblicati da Joseph Gill.
L’Oratio dogmatica sive de unione fu resa pubblica da Bessarione alla metà del mese d'aprile dello stesso anno. Nell’Oratio le indicazioni e il materiale delle Epigraphài di Bekkos vengono sfruttati integralmente. Lo stesso piano dell'opera, i titoli in cui è suddivisa, nonché, soprattutto, l'insieme delle citazioni patristiche dipendono in modo evidente dallo scritto del patriarca Bekkos, come si può riscontrare confrontando punto per punto fra le Epigraphài di Bekkos e il testo dell’Oratio de unione.
E’ una soggezione tanto letterale e inattesa, in un intellettuale attento e sofisticato in teologia, da sembrare un messaggio cifrato al clero costantinopolitano: l’espressione, quasi, di una ribellione passiva, di un ostentato cinismo nei confronti dei latini.
L'unione di Firenze fu dunque un atto di opportunità politica e infedeltà teologica del grande Bessarione, come rilevato dai prelati contemporanei antiunionisti e anche in seguito da parte laica. Un atto che gli storici non possono comprendere a fondo senza tenere presente il suo vero obiettivo: fornire una base religiosa al grandioso progetto geopolitico di “salvataggio occidentale di Bisanzio” cui lo stesso Bessarione dedicò la vita, tra gli anni venti e gli anni settanta del Quattrocento.
Concepito da Manuele II e Martino V, alimentato dalla curia romana dietro instancabile pressione e pervicace suggestione del cardinale Niceno, perseguito dai papi successivi, dai dogi veneziani e dai signori italiani con l’appoggio di potentati europei come la Borgogna e gli stati tedeschi, il regno del Portogallo e quello d’Aragona, il progetto prendeva avvio dall’originaria alleanza matrimoniale fra Teodoro II Paleologo e Cleopa Malatesta.
Queste nozze, celebrate il 19 gennaio del 1421, diedero inizio a una densa peripezia storica, in cui alleanza dinastica, coesistenza religiosa e concertazione politica si intrecceranno lungo il mezzo secolo che separa il matrimonio della giovane Cleopa, figlia di Carlo Malatesta e cugina di Martino V, dalla crociata in Morea, successiva alla caduta di Costantinopoli, indetta da Pio II a Mantova ed effettivamente condotta, anche se con poca fortuna, dal cugino di Cleopa, Sigismondo Pandolfo Malatesta, tra il 1464 e il 1466.
L’idea di una “rifondazione occidentale” di Bisanzio, prefigurata dall’intellettualità bizantina di cui era ambasciatore e “precursore” (provdromo") Bessarione, era stata promossa con ogni possibile energia dal papa umanista e appoggiata da un congruo nucleo di signorie italiane che a partire dall’alleanza dei Paleologhi con i Malatesta avevano teso una progressiva e fitta rete di parentele con gli ultimi regnanti bizantini. La formula politica della nuova Bisanzio avrebbe dovuto essere ben diversa da quella della basileia multietnica e plurinazionale che si era gradatamente ristretta, fino quasi a estinguersi, nei secoli precedenti. Verosimilmente, sarebbe stata improntata al modello di città-stato, a metà tra la polis ellenica e la signoria rinascimentale italiana, che gli scritti politici di Gemisto/Pletone e della scuola di Mistrà avevano elaborato secondo uno schema solo apparentemente utopistico.
Secondo gli intenti dichiarati dai documenti pubblici e dagli scritti privati di Enea Silvio Piccolomini, la nuova basileia di Bisanzio, rifondata quale enclave greco-cristiana nel dominio turco, ridotta ma politicamente determinante, avrebbe avuto il suo centro ideale nella sede di Pietro e la sua testa di ponte strategica nel Peloponneso, funzionale ai disegni geopolitici degli stati coinvolti così come agli specifici interessi economici veneziani.
Il piano di “salvataggio occidentale” di Bisanzio che prese vita in quei cinquant’anni sarebbe stato sottovalutato, se non non del tutto rimosso, dalla successiva storiografia occidentale, di impronta cattolica. L’ultimo esito di questa rimozione sarà la plurisecolare obliterazione della cultura bizantina dalla coscienza storica dell’Occidente moderno. Ma dell'eclissi non furono causa solo il fallimento militare e l’abbandono del piano di salvataggio in seguito alla morte pressoché contemporanea dei suoi principali promotori tra il 1464 e il 1472. Esclusa in modo definitivo la traslazione dinastica e religiosa della corona di Costantino in Occidente, a perpetuare Bizanzio sarà il passaggio della sua discendenza alla nascente potenza russa e il suo riassorbimento in seno alla chiesa ortodossa nel 1472, data del matrimonio tra Zoe/Sofija Paleologina, figlia dell'ultimo despota della Morea Tommaso Paleologo, e il granduca Ivan III di Mosca.
Le nozze della principessa, di cui Bessarione era tutore, avrebbero dovuto riprodurre il modello di matrimonio “misto” sperimentato da Cleopa e Teodoro II, ma così non fu, o fu solo illusoriamente. Gli interessi del latinismo e della curia romana furono traditi a vantaggio di Mosca. Dietro le mosse del sedicente diplomatico che trattò la più fenomenale alleanza dinastica della nuova età moderna, il vicentino Giovanbattista Della Volpe, convertito all’ortodossia e spia di Ivan III, si intravedono, di nuovo, la strategia e la spregiudicatezza di colui che è ormai un grande anziano del gioco o doppio gioco politico: il campione della diplomazia e delle relazioni internazionali bizantine, lo stesso cardinale Niceno, Bessarione.
Quest’episodio tanto cruciale quanto in larga misura incontrollato dalla chiesa cattolica segnerà la nascita della Terza Roma, creando già a partire dalla fine del quindicesimo secolo una cortina di ferro tra Occidente e Oriente che isolerà la tradizione statale bizantina da quella europea, confinandola all’est e opponendola da allora in poi all’ideologia del papato e allo sviluppo politico europeo.
Con questa tradizione che Giovanni Paolo II, il papa polacco, deve fare i conti. Il passaggio per la seconda Roma non è che la prima tappa verso la vera e ultima meta di tutto il suo cammino politico: la Terza Roma, Mosca.