Sant'Agostino, il più amato dagli eretici e dai tormentati
Nel suo diario celebrò l'incomprensibilità della vita, la fuggevolezza del tempo. In anticipo su Freud, scoprì il Mistero della psiche umana
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«Il nostro cuore è inquieto», scrive Agostino all'inizio del suo sterminato diario intimo, il primo della storia della letteratura. Il filosofo africano che «nelle Confessioni cantò il fastidio del mondo e nella Città di Dio cullò la paurosa angoscia del tempo», come lo ha definito Huysmans, aveva davvero un'anima turbata. Era pessimista sulla natura umana, esitante su quella divina. Secondo Agostino la presenza della morte è al centro della vita sensibile. La vita, scrive, è una fossa comune nella quale i vivi sono sepolti insieme con i cadaveri. Giobbe, scrive, era più grande di Catone, perché Giobbe, contrariamente a Catone, non si uccise. Le Confessioni di Agostino, in effetti, possono considerarsi un immenso commentario al Libro di Giobbe. E l'antieroe biblico, con cui l'io narrante si identifica, rappresenta il paradigma dell'uomo in lotta con sé stesso, dunque il prototipo dell'uomo moderno, «in guerra con la natura e in conflitto con l'istinto», secondo la definizione che ne diede Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli. Agostino apparteneva in senso proprio all'età della Decadenza, era vissuto al tempo della caduta dell'impero antico, quando i Vandali e gli Unni avanzavano e Roma veniva saccheggiata dai Visigoti. Da ragazzo, scrive nelle Confessioni, si era «imbestialito in amori diversi e tenebrosi». I rovi delle passioni «erano cresciuti oltre il suo capo». Era ossessionato dall'esilità del discrimine tra bene e male. Quando nel 374 comparve nel cielo la cometa che poi fu detta di Halley, si convertì a una disciplina gnostica dominata dal problema del male. Ma poi divenne scettico anche su quel credo e vide i suoi sacerdoti come splendidi fantasmi «la cui verità non era vera, perché erano in fuga dal loro cuore». Non è un caso che Agostino sia il santo più amato dagli eretici e dai tormentati. Perché era lui stesso un eretico e un tormentato. Da bambino rubava. L'infanzia, secondo Agostino, è l'età del «diluvio dell'oblio». Secondo Agostino «innocente è la debolezza delle membra del bambino, non l'animo del bambino». Gli uomini, scrive, esagerano le differenze tra l'età infantile e quella matura: «I giochi dei grandi si chiamano lavoro, mentre quelli dei piccoli, pur essendo del tutto analoghi, sono puniti dai grandi. E nessuno ha pietà dei bambini, né degli adulti, né di entrambi». Da ragazzo Agostino era diventato «un grande enigma a sé stesso» e aveva cominciato a domandare alla sua anima perché fosse così triste. Più tardi aveva capito che la tristezza consuma l'anima «perché perde ciò che desidera nel momento in cui lo possiede». Molti secoli più tardi, in un'altra Decadenza, al tramonto di un altro impero, quello austroungarico, Freud avrebbe scritto analogamente che «ogni sentimento di tensione verso il piacere comporta necessariamente il carattere del dispiacere». Gli uomini, si stupiva Agostino, vanno ad ammirare le vette dei monti e trascurano l'infinita, vertiginosa complessità della propria psiche. Nella psiche umana lui scoprì l'esistenza di un Mistero, di qualcosa di altro dalla coscienza, «qualcosa che è nella memoria anche quando l'animo non prova più nulla». La casa della coscienza gli appariva piccola. Non è un caso che Agostino sia, tra i filosofi e gli scrittori cristiani, il più amato dai non cristiani. Il diario del vescovo di Ippona, che celebra la difficoltà degli uomini ad ancorarsi al mondo, l'incomprensibilità della vita, la fuggevolezza del tempo, come ogni grande libro si può leggere in tutti i modi, ma anche come la sconcertante avanguardia delle scoperte di Freud. Il quale del resto non fece che ritrovare in sé una disciplina ancestrale accantonata dal progresso, alla quale si iniziò e che chiamò psicanalisi. Agostino chiamava il Mistero divinità, Freud lo chiamava inconscio. Fra le due verità c'è un'incessante attrazione, poiché nella psicologia di tutti i tempi il mistero e il sacro coincidono. Al Mistero Agostino diede del tu. «Il nostro cuore è inquieto», scriveva, ma subito aggiungeva: «Finché non trova quiete in Te». Quel Tu che lui evoca e invoca, quel Tu al di fuori del quale niente esiste veramente - la legge delle cose essendo il non essere - altro non è, nelle Confessioni, se non la sfuggente e misteriosa possibilità dell'analisi del Sé. In quel Tu Agostino intuì un'entità divina, fluida, dolce e onnisciente, cui porre tutte le domande che tormentavano l'Io. «O Tu misericordioso, di' a me misero se mai la mia infanzia sia succeduta a qualche altra mia età a sua volta già morta. E prima ancora? Sono stato da qualche parte, sono stato qualcuno?». Quel Tu ci dà per maestro il dolore. Quel Tu è «un ricordo innamorato e come il rimpianto del profumo di cibi che non si è ancora stati capaci di mangiare». Quel Tu ci cattura attraverso l'amore: «Ho fame e sete di Te, Tu mi hai toccato e mi hai infiammato della tua pace». Quel Tu è il desiderio che determina tutte le azioni e aspirazioni degli uomini, è l'Eros del divino Platone: «Tu, mio amore, nel quale vengo meno per essere forte». «Ma», si domandava Agostino, «cosa amo quando Ti amo? Amo una certa luce, una certa voce, un certo profumo, un certo cibo, un certo amplesso». «Anche se scendessi agli inferi», diceva, «Tu saresti in me». Perché quel Tu ribolle al di qua dell'Io, inaccessibile all'intelletto: «Interior intimo meo et superior summo meo», affondato in me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta. È infinito, in sé fondato e permanente, non delimitabile nello spazio della coscienza: «Non sono certo i vasi pieni di Te a renderti stabile, poiché se si infrangessero Tu non Ti verseresti». «Ma come posso trovarti, se di Te non ho memoria? Sorpasserò la mia memoria?». A quel Tu ci porta «il santuario enorme, sconfinato» della memoria rimossa, che si apre al di sotto della coscienza come una cripta piena di sale e di corridoi gremiti di terribili tesori. Anche Agostino, come Freud, amava molto e conosceva bene la cultura classica. Ma definiva Omero «dolcissimamente vano», perché dubitava che le cose che possiamo conoscere con l'intelletto e da cui possiamo essere consolati, la cultura e l'arte, di per sé possano riscattarci e toglierci quell'ansia che rende «inquieto il nostro cuore». «Chi aggiunge conoscenza aggiunge anche dolore», scriveva Agostino. Non si tratta di aggiungere. Si tratta di cambiare la via del conoscere, e le Confessioni sono la guida per questo itinerario.