Estatiche visioni
Sotto l’apparenza di una forma materiale svelano un sovramondo. Silvia Ronchey ci guida alla scoperta del loro misterioso significato, commentando le opere raccolte da Banca Intesa a Palazzo Leoni Montanari
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Il quesito sul senso della vita forse non è mai stato posto nettamente come ai nostri giorni, in cui il mondo ha squadernato tutto il male e l’insensatezza di cui è capace», scriveva Evgenij Trubeckoj all’inizio della sua Contemplazione del colore, pubblicata negli anni della Prima guerra mondiale. Allora lo sgomento, il senso di una catastrofe epocale e di un rivolgimento irreversibile di civiltà erano simili ai nostri.
In Trubeckoj la lotta contro l'orrore del proprio tempo, la ricerca di un'uscita dalla storia si identificarono con quelle dei pittori d'icone dell'antica Russia, che «con meravigliosa chiarezza e forza incarnarono nelle forme e nei colori la visione di una diversa verità vitale e di una diversa concezione del mondo».
Ma che cos’è un'icona? Nella filosofia bizantina e poi russa viene chiamata con questo nome quell'immagine che sotto l’apparenza di una forma materiale svela in trasparenza un sovramondo ideale metafisico o psicologico che sia. Fin dal pensiero greco, da Platone, l'immagine era, nel mondo sensibile che le dava supporto, la manifestazione dell’intelligibile puro. Protratta almeno a partire dal VI secolo della nostra era lungo il millennio di Bisanzio, l’astrazione del platonismo ha instillato all’arte figurativa balcanica, poi slava, infine russa, un linguaggio teologico. Ha fornito alla teoria platonica, diventata cristiana, un'iconografia complessa, minuziosa, intessuta di corrispondenze spirituali. Secondo le parole dello Pseudo-Dionigi Areopagita, le icone sono «rappresentazioni visibili di spettacoli misteriosi e soprannaturali».
«La bellezza salverà il mondo», scriveva Dostoevskij, ma questo era già il principio fondamentale dell’estetica bizantina. Per i padri della chiesa ortodossa, per Gregorio di Nazianzo come per lo Pseudo-Dionigi, per Giovanni Damasceno come per Gregorio Palamas o i grandi mistici della teologia esicasta, lo stile di un’icona o di un affresco, lo splendore di un mosaico, l'armonia dell'architettura di una chiesa di per sé salvano, portano verso l'alto e la luce. La bellezza è in sé sacra perché è una trasfigurazione dello spettatore, è un Tabor dello sguardo: agisce su chi la contempla proprio come la Trasfigurazione di Cristo in vetta al Monte Tabor sugli apostoli; dà la capacità di vedere la struttura spirituale e cristallina delle cose, al di là delle loro parvenze materiali e atroci.
«Esiste la Trinità di Rublèv, dunque Dio esiste», è il celebre sillogismo formulato da Pavel Florenskij nelle sue Porte regali, il più famoso saggio sull’icona. Perché, spiegava Florenskij, «il visibile e l’invisibile sono in contatto, ma la differenza fra loro è così grande che non può non nascere il problema del confine. La linea di confine è la nostra psiche, in cui «la vita nel visibile si alterna alla vita nell'invisibile» in una serie di stati. Il più comune è il sogno, il più raro l’estasi mistica, quando «l’anima si inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia sul piano dell'invisibile».
I pittori di icone, spiega Florenskij, «ci offrono le immagini eide, eikones delle loro visioni». L’icona «può essere di somma o scarsa maestria, ma alla sua base sta la percezione autentica di un'esperienza sovrannaturale autentica». In questo senso, «ogni icona è una rivelazione», per dipingere la quale occorre sempre «vedere qualcosa con i propri occhi spirituali». Perciò «l’icona o è sempre più grande di se stessa, se è una visione celeste, o è meno di se stessa, se non apre il mondo soprannaturale alla coscienza» di chi la guarda. Poiché il suo scopo è sollevarla verso il mondo spirituale, se questo non si attua nella sensibilità di chi guarda, l'icona resterà solo, nelle parole di Florenskij, «una remota sensazione dell'oltremondo, come le alghe ancora odorose di iodio testimoniano del mare».
La certezza che le icone siano dipinte in base a visioni è essenziale e addirittura ovvio nella Chiesa ortodossa. Lo spettatore ortodosso ha sempre avvertito la forza ipnotica, quasi magica, che quelle tavole hanno di resuscitare la visione estatica di chi le ha dipinte. Raramente però questa sensibilità è stata condivisa dallo spettatore cattolico o in genere occidentale. Solo dall’inizio del Novecento, a partire dalla prima esposizione di icone del 1913 a Mosca e grazie anche agli scritti di Trubeckoj e Florenskij, oltre che al recupero della storia e della cultura bizantine, le icone sono state oggetto in Europa di interesse e cura.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, «il processo di avvicinamento e di confronto» tra Occidente e Oriente europeo ha fatto ulteriormente «riemergere convergenze e affinità tematiche a lungo affievolite», come ha scritto Giovanni Bazoli, ideatore e promotore di un progetto mecenatizio dalle motivazioni insieme spirituali e ideologiche: raccogliere con i capitali di Banca Intesa una collezione di icone russe tra le più importanti del mondo occidentale. Dal 1999 nel Palazzo Leoni Montanari a Vicenza hanno trovato alloggio quasi 500 tavole, di cui oltre 130 esposte al pubblico nelle gallerie.
La collezione, il cui nucleo iniziale proveniva da una raccolta privata costituita nell’Italia del Nord tra gli anni Settanta e Ottanta, e che è venuta poi arricchendosi di acquisti sul mercato angloamericano e tedesco (provvidenziale negli anni Novanta la dispersione della collezione Rockefeller), è stata sottoposta a restauro e alla catalogazione sistematica di un comitato internazionale di esperti. L’esposizione, articolata cronologicamente e per tematiche narrative, vuole celebrare ««nell’età dei fragori massmediali», come ha scritto il coordinatore Carlo Pirovano, la «flagrante inattualità» dell’icona medievale, la sua bellezza «alternativa».
Ma che cosa intendeva per bellezza l'estetica bizantina, poi russa? Non certo il bello corporeo, il bello di natura. Dei mistici effigiati nelle icone. Giovanni Damasceno scriveva: «Rappresentarli nello stato corporeo terreno equivarrebbe a togliere loro onore». E descrisse in questi termini i loro volti: «Sono raffigurati in stato di beatitudine, rivestiti dello splendore divino che è loro proprio». Così, il viso dei «saggi ritti nel sacro fuoco», come li definì William Butler Yeats in Verso Bisanzio, è smaterializzato. Il pittore di icone si serve paradossalmente della figura umana e del visibile della luce, dell’oro, dello splendore dei colori e degli ornamenti per rappresentare l'invisibile.
«È nei mezzi stessi della pittura d'icone, nella sua tecnica, nelle materie adoperate, nella fattura dell’immagine che si esprime la metafisica di cui vive e grazie a cui esiste l'icona», specifica Florenskij. Guardiamo i volti di santi come Nicola Taumaturgo e Nicola di Mozajsk. Gli occhi sono ingranditi, le pupille nere e fisse indicano l’estasi. I tratti, affinati allo stremo, sono scarnificati e privi di sensualità. La fisionomia della persona ritratta nell'icona è esattamente il contrario di quella apprezzata dall’umanità vivente. Che sia uomo o donna, come la Theotokos della Tenerezza di Novgorod, il naso è lungo e ossuto, la bocca piccola. È imperativo che le labbra siano sottili: non si vedranno mai, in un’icona, labbra carnose.
Il viso bizantino è il viso di chi è uscito dal mondo, per usare le parole di Elémire Zolla. È un viso distaccato, con le sopracciglia arcuate in un’espressione impassibile e insieme lievemente interrogativa. È un viso ascetico, anoressico, con qualcosa di funebre nelle occhiaie profonde, nell'evidenza delle ossa sotto la pelle sottile. Un viso su cui la lotta dell'esistenza, gli spasmi dell’intelligenza, la nevrosi, l’insonnia hanno lasciato traccia. Non mancano mai le rughe, supremo segno di bellezza interiore.
Guardiamo gli arcangeli dell'iconostasi e gli evangelisti delle porte regali. O ancora gli oranti, con al centro Romano il Melode, nella Protezione della Madre di Dio, e i monaci, le suore, i vescovi, gli zar del Giudizio Universale. I loro corpi sono lunghi e sottili, le mani e i piedi minuscoli. Una ricerca sofisticata ha attenuato la volumetria, semplificato e schematizzato le forme che si appiattiscono ad arte, definite da un’insistita linea di contorno. A tratti i corpi scompaiono del tutto dietro i panneggi o dentro vesti rigide e vuote che sembrano stare su da sole, come lenzuoli di fantasmi.
Se, come scrive Trubeckoj, «l'icona non è un ritratto ma un prototipo della futura umanità trasfigurata», quella vagheggiata dall’utopia bizantina è un'umanità non solo spirituale e ascetica, ma pacifica e vegetariana. Quella che Trubeckoj chiama «la corporeità sottilizzata» dell’icona è «la negazione netta del biologismo che erige la sazietà della carne a massimo e assoluto comandamento». «I volti macilenti delle icone - prosegue Trubeckoj - contrappongono al sanguinoso regno della carne sazia e soddisfatta non soltanto i sensi affinati ma soprattutto una nuova norma nei rapporti esistenziali. E il regno di cui la carne e il sangue non possono entrare in possesso».