Galileo, l'antimoderno
Un libro e un processo riaccendono il dibattito sullo scienziato
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Lo Spirito Santo, scriveva Galileo a Cristina di Lorena, non ha voluto insegnarci se il cielo si muove o sta fermo, né se al suo centro sta la terra o il sole. D'altra parte, non è concepibile che lo Spirito Santo abbia omesso di insegnarci qualcosa che concerne la nostra salvezza. E allora, come si può avere in questa materia un'opinione eretica? Come si può affermare che l'ipotesi geocentrica di Tolomeo sia necessariamente ortodossa e quella eliocentrica di Copernico sia erronea? «L'intenzione dello Spirito Santo è di insegnarci come si va in cielo, e non come va il cielo», amava dire anche il cardinal Baronio, il migliore amico di Roberto Bellarmino, l'inquisitore di Galileo. Contrariamente allo stereotipo illuminista, Bellarmino era un uomo spregiudicato e coltissimo. Giudice e accusato erano entrambi dei cristiani convinti. Galileo non era assolutamente, come a volte si rischia di vederlo, un pensatore «laico». I due avversari appartenevano entrambi all'intelligencija ecclesiastica di un'epoca in cui la cultura del cattolicesimo stava toccando il suo apice. Condividevano amicizie, letture, frequentazioni, nonché, si potrebbe azzardare, opinioni. Il conflitto fra i due era strettamente formale, si trattava cioè, in sintesi, di come presentare la questione, non della sua essenza. Bellarmino voleva che Galileo ammettesse che la sua era una pura ipotesi matematica. In questo senso, come non dargli ragione? Oggi il dubbio domina la visione scientifica così come la filosofia della scienza. Tutto è messo in forse, perfino la geometria euclidea. Tra accusato e inquisitore, tra Galileo e Bellarmino, potremmo paradossalmente dire che il meno dogmatico era il secondo. Questo perché sia chiaro che nel processo d'opinione più famoso della storia europea, riallestito sul palco del Festival di Spoleto il 28 giugno scorso in una chiave politica tanto attuale quanto poco pertinente (la polemica sui magistrati d'accusa, che ha messo a confronto Gaetano Pecorella e Paola Severino nell'immaginario tribunale presieduto da Luciano Violante), a opporsi non sono mai stati ragione e oscurantismo, come potrebbe essere portato a credere sia lo spettatore del Festival dei Due Mondi, sia il lettore del libro di Annibale Fantoli, Il caso Galileo. Dalla condanna alla «riabilitazione». Una questione chiusa?, appena uscito nella Bur (277 pp., 8,50 euro).
Fantoli, teologo vicino al Vaticano e alla Commissione di studio sulla questione galileiana, ripercorre con pessimismo l'evolversi del pensiero ufficiale della chiesa in materia: dall'ambiguo imprimatur di Benedetto XV alla prima edizione delle opere di Galileo, quando la scoperta del fenomeno dell'aberrazione della luce diede la prova tanto cercata del movimento della terra intorno al sole, fino alle più recenti, e per Fantoli deludenti, «riabilitazioni» di Galileo contenute nei discorsi del cardinal Poupard e dello stesso papa Woitjla alla Pontificia Accademia delle Scienze nel 1992. Contro Poupard leggiamo una serie di accuse. Ha prestato a Bellarmino una falsa aura di obiettività. Ha ribadito che Galileo non riuscì a provare in maniera irrefutabile il duplice movimento della terra. Ha passato sotto silenzio non solo la cosiddetta prova delle maree, ma anche le scoperte realizzate col cannocchiale. Ha esagerato i cauti ripensamenti ecclesiastici precedenti la cancellazione di Galileo, Copernico e Keplero dall'Indice dei libri proibiti nel 1835. Ha presentato come una semplice «misura disciplinare» la condanna del grande scienziato. Eppure fu un decreto dottrinale a dichiarare «falsa e del tutto contraria alla Divina Scrittura», nel 1616, la «spiegazione copernicana della costituzione del mondo». E Urbano VIII, al termine del secondo processo, nel 1633, giustificò la condanna e l'abiura di Galileo con il «veemente sospetto di eresia». È probabile che Fantoli, tecnicamente, abbia ragione. Ma non è per questo motivo che il caso Galileo va ritenuto, come denuncia il titolo del suo libro, ancora aperto. L'attualità del caso Galileo andrebbe letta oggi alla luce del dibattito, interno alla scienza, tra conoscibilità e inconoscibilità del cosmo. La certezza di Galileo, che ringraziava Dio per avergli concesso il privilegio di iniziare una ininterrotta serie di scoperte e progressi, si contrapponeva allora a una visione dell'universo convinta della provvisorietà di ogni scoperta umana e della relatività di ciò che chiamiamo progresso. Difficile oggi decidere quale delle due posizioni sia più attuale, e più condivisibile.