San Tommaso: un omicidio politico? Dante ne era certo
Nel «Purgatorio» un’accusa precisa per il re di Napoli, Carlo d’Angiò: «ripinse al ciel Tommaso» che apparteneva a una nobile famiglia schierata con i nemici Hohenstaufen
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Ci sono date che segnano una svolta nella storia. Una è il 18 luglio 1323, il giorno in cui fu fatto santo Tommaso d’Aquino. Cosa sarebbe stato il pensiero occidentale se Guglielmo di Tocco, l’astuto domenicano postulatore nel suo processo di canonizzazione, non fosse riuscito a purificare la memoria del confratello da ogni sospetto di eterodossia, facendo cancellare le condanne ecclesiastiche che avevano colpito le sue opere? E se non avesse incluso nella documentazione di parte del processo una Vita Beati Thomae scritta per l’occasione, inserendovi una piccola ma decisiva bugia sulle circostanze e le cause della sua morte? Come si sarebbe evoluta la nostra filosofia se gli scheletri nell’armadio dell’Ordine fossero venuti alla luce, se fosse stato dimostrato che il futuro santo non aveva accidentalmente «battuto la testa cadendo da cavallo» sulla via del concilio di Lione? O se fossero addirittura prevalse le dicerie scatenate da un verso di Dante, secondo cui Tommaso era stato assassinato?
Il 18 luglio 1323, quando Guglielmo di Tocco riuscì a far passare un’immagine irreprensibile del defunto, passò anche, nella Chiesa e in tutta la cultura del tardo medioevo, un sistema di pensiero che avrebbe rivoluzionato l’Europa. Passò un realismo critico che contribuì a fondare il mondo moderno e la sua nozione di laicità. Passò una dottrina dei rapporti fra Chiesa e Stato che restituì alle strutture profane la loro autonomia e pose con ciò il principio costitutivo della società moderna. Passò un impianto speculativo che recuperando le categorie di Aristotele fece uscire l’individuo da quella che gli studiosi del «solare» Tommaso hanno chiamato la «nebbia platonica». Ma nulla di ciò sarebbe accaduto se l’icona di Tommaso fosse stata offuscata dall’onta del complotto, o di una morte comunque misteriosa e torbida.
Quello della morte di san Tommaso è un giallo antico di secoli, destinato forse a rimanere irrisolto, come incompiuto è rimasto il libro di Rocco Cacòpardo, Se veramente Tommaso d’Aquino, come scrisse Dante, fu assassinato, pubblicato postumo da Rizzoli una decina di anni fa. Lungo i secoli, gli studiosi si sono più o meno nettamente divisi in due partiti: i complottasti, propensi ad addebitare a Carlo d’Angiò, il re francese che aveva affogato nel sangue l’impero svevo, l’omicidio politico di Tommaso; e gli scettici, propensi a seguire, in mancanza di dati certi, la versione ufficiale della Chiesa.
Ecco i dati. Il primo in ordine di tempo è il distico che nel Purgatorio (XX, 68-9) chiude l’invettiva di Ugo Capeto, il capostipite della casa reale di Francia, contro il suo ultimo discendente, Carlo d’Angiò, il quale, sceso in Italia, «vittima fé di Curradino; e poi / ripinse al ciel Tommaso, per ammenda». Corredino di Svevia, ultimo erede di Federico II, fu catturato a tradimento e decapitato dopo un processo farsa nel 1268, sei anni prima della morte di san Tommaso: Carlo voleva estirpare definitivamente dall’Italia il diritto di successione degli Hohenstaufen. La decapitazione sul patibolo di un re sedicenne prigioniero di guerra era un atto inaudito, che all’epoca aveva suscitato orrore e scandalo, oltre alla formale protesta del papa, di cui pure Federico II era stato il grande nemico. «Ripinse al ciel Tommaso», cioè lo «mandò al Creatore». Già gli antichi commenti alla Commedia consideravano la dura, sardonica frase di Dante un’allusione alla morte di san Tommaso per avvelenamento. Secondo una prima versione, Carlo d’Angiò gli avrebbe domandato, il giorno prima della partenza per il concilio di Lione: «Fra’ Tommaso, se il papa chiederà di me, che cosa gli direte?», e quello avrebbe risposto: «Gli dirò semplicemente la verità». Idea tanto poco gradita da indurre il re a farlo intercettare e avvelenare lungo il tragitto da un medico di corte. Secondo un’altra versione, Carlo avvelenò Tommaso perché temeva che fosse eletto papa.
Leggende, dicerie, che non avrebbero insospettito tanto gli storici se pochi anni dopo la versione dell’avvelenamento non fosse rispuntata nella Cronica del cautissimo Giovanni Villani, secondo cui (IX, 218), «mentre era in viaggio verso la sede del papa, a Lione, al concilio, un medico lo fece morire mettendogli un veleno nelle pillole», per compiacere il re Carlo, «dato che Tommaso era della famiglia dei signori d’Aquino, ribelli al re, e pensando che forse, per la sapienza e la virtù, sarebbe stato fatto cardinale». Il prudente Villani fa precedere la notizia da un «si dice» e non addebita direttamente a Carlo l’assassinio; ma accredita pur sempre la denuncia dei primi commentatori danteschi. Quanto ai moderni, concordano nel cogliere, in quel verso, una precisa allusione all’avvelenamento; alla quale invece i biografi del santo negano qualsiasi attendibilità, additandola se mai come prova del fatto che «la vera causa della morte di Tommaso non si conosceva né allora né adesso».
In effetti, è vero che un ramo della famiglia d’Aquino era legato agli Staufen e quindi nemico del re angioino. Ma è anche vero che ottimi rapporti legavano al nuovo sovrano il ramo cui apparteneva per via diretta san Tommaso. E che ancora migliori erano i rapporti personali del teologo con Carlo, che dopo il tempestoso periodo parigino gli aveva dato una cattedra, se non addirittura la direzione della Facoltà di Teologia, nell’Università di Napoli, pagando «un’oncia d’oro per ogni mese che vi trascorreva per l’insegnamento». Altre fonti ci informano di un colloquio d’affari, in cui «Carlo riportò un’impressione così buona di Tommaso che da allora lo considerò al pari di un caro amico»; nei protocolli, lo chiamerà «nostro carissimo amico». Perché allora avrebbe dovuto assassinarlo?
O meglio, a chi sarebbe potuto servire Tommaso morto? Non al papa, che lo aveva voluto a Lione e si apprestava a dargli la porpora. Non al re guelfo, di cui era il fiore all’occhiello e che andava d’accordo sia con lui sia con i suoi parenti stretti, contrariamente a quanto riporta Villani. Non ai parenti lontani legati agli Staufen, dato che sei anni prima la persecuzione contro il partito imperiale aveva annientato i d’Aquino ghibellini e con Corredino era stato decapitato un altro Tommaso d’Aquino, cugino del teologo, cresciuto alla corte imperiale e sposato a una figlia di Federico di Svevia.
No, a nessuno giovava assassinare san Tommaso. Che l’idea di un complotto sia germogliata già pochi anni dopo la sua morte prova solo che la dietrologia è sempre stata un hobby degli storici. Invece «il caso è il re del mondo», come diceva Robespierre, e lo zampino del caso sta in quell’omonimia tra cugini quasi coetanei, ma di fazioni politiche opposte, morti precocemente a poca distanza l’uno dall’altro. È al Tommaso vassallo di Corredino di Svevia che allude probabilmente Dante quando scrive che Carlo lo «ripinse al ciel». Un’allusione travisata dai posteri per il sommarsi di ulteriori combinazioni casuali: prima fra tutte, l’incertezza sulla fine del teologo, che trapela malgrado l’accorta prosa di Guglielmo di Tocco.
Perché, se una violenza ci fu intorno alla morte di Tommaso d’Aquino, non fu fisica, ma ideologica. E non portò alla morte di Tommaso, ma alla sua immortalità. Nei suoi ultimi tre mesi di vita il teologo, fino ad allora così alacre da avere bisogno di sette scrivani, così «solare» nei modi d’essere come in quelli della sua speculazione, fu còlto, come rivela il suo fedele assistente, Reginaldo da Piperno, da un male oscuro, che cambiò completamente il suo modo d’essere e di pensare; o, meglio, che gli impedì di praticare ciò che Aristotele chiamava pensiero, e che lo portò a desiderare di non essere.
Era il 6 dicembre 1273. Per tutto l’anno Tommaso aveva lavorato disperatamente. Ma quella mattina, celebrando la messa, fu, scrive Reginaldo, «improvvisamente colpito da qualcosa» e si produsse in lui «un cambiamento così incredibile che non scrisse né dettò più nulla», ma anzi decise di lasciare incompiuta la sua grande opera, la Summa Theologiae. Al confratello, che insisteva perché la continuasse, confidò: «Reginaldo, non posso, perché tutto ciò che ho scritto finora è come paglia in confronto a ciò che adesso mi è stato rivelato». E aggiunse: «L’unica cosa che desidero è che Dio, dopo avere posto fine alla mia attività di scrittore, possa presto porre termine anche alla mia vita».
Che cosa avesse capito o visto Tommaso durante la messa, che si trattasse di una rivelazione intellettuale, di una visione mistica o semplicemente di un crollo nervoso, ammesso che fra queste cose si possa stabilire una differenza, non sapremo mai. Tommaso vincolò al segreto Reginaldo. Ma sappiamo che fino al giorno fatale della cosiddetta caduta da cavallo sulla via di Lione si comportò come uno che non voleva più vivere. L’intellettuale che «non aveva praticamente mai sprecato un attimo del suo tempo» fu preso da un profondo medium vitae e «non riuscì più né a insegnare né a scrivere», ma passò la maggior parte del suo tempo a letto, senza aprire bocca, alzandosi solo «per provvedere ai propri bisogni fisici». Qualche studioso ha parlato di esperienza estatica, qualcun altro di un colpo apoplettico, qualcun altro di esaurimento nervoso da superlavoro, cioè di depressione. In realtà sappiamo solo che Tommaso aveva perso ogni fede nella filosofia teologica, che da Dio voleva solo essere aiutato a morire, e che questo non si addiceva alla biografia ufficiale di un teologo sul cammino della santità. Di cosa poi Dio si sia servito per esaudire il suo desiderio - se di un cavallo bizzoso o di un farmaco sovradosato o di qualche altro gesto compiuto da Tommaso stesso o da un medico pietoso, ben più probabilmente che da qualsiasi sicario del re - in definitiva non conta. Qualunque cosa in quella messa avesse intuito di Lui, Tommaso era stato uno dei Suoi più fedeli e utili servi: non meritava di aspettare più di tre mesi la risposta della Sua provvidenza.