Il “cantico” dell'eros ferito
E Origene rivoluzionò il poema biblico
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A poco più di vent'anni il filosofo Origene, enfant prodige del platonismo alessandrino, si evirò. Aveva — narra Eusebio — troppo da fare coi libri, giorno e notte, e questa era per lui già “una passione e una ginnastica”. Niente lo staccava dalle sue carte allineate come un solitario (ne scaturirono gli Exapla, la sua sinossi del Vecchio Testamento). Nulla doveva distoglierlo dal comparare e commentare il testo sacro. Il suo fu il più grande esperimento di applicazione dell'esegesi allegorica neoplatonica al cristianesimo. Per la tradizione cristiana l'autocastrazione di Origene (ispirata forse da uno strano passo di Matteo, 19, 12), fu un atto di ascetismo estremista, che molti anni dopo, insieme alle altre anomalie dogmatiche, gli valse l'inquisizione e la deposizione dal ministero ecclesiastico. Ma un altro estremismo, spirituale, provocava il suo furore interpretativo. Voleva sbarazzarsi totalmente della vita materiale, così da poter ripartorire — come aveva scritto San Paolo — il suo spirito.
Ai due insegnamenti, che precocemente teneva nella sua scuola di Alessandria e nel didaschaleion episcopale, accorrevano troppi studenti. Abbandonò le lezioni di filologia per dedicarsi ai corsi catechetici, di teologia ed ermeneutica dei testi sacri. Poté così liberarsi dal peso materiale e psicologico dei classici, nonostante li amasse e vi si fosse formato. Vendette a un privato la grande biblioteca di manoscritti con cui conviveva fin dall'adolescenza, per lo più copiati di sua mano, in cambio di una rendita di quattro oboli al giorno: abbastanza per vivere da povero, dormire per terra, mangiare pochissimo, vestire abiti lisi e non usare, il più delle volte, neanche i sandali. La sua vita ascetica, scandalosa nella città più ricca e sofisticata dell'impero romano del III secolo, sarebbe stata imitata, una generazione dopo, dai primi solitari monaci e anacoreti in fuga dal mondo, che l'avrebbero chiamata, tecnicamente, “filosofia”. Fu a partire dall'esperienza di Origene che le due parole, ascesi e filosofia, divennero, nel lessico cristiano, sinonime.
Le Omelie sul Cantico dei Cantici, opera della maturità di Origene, uscite ora nell'edizione tradotta e commentata da un veterano come Manlio Simonetti per la Fondazione Lorenzo Valla (Mondadori, 224 pp., £48.000), sono uno dei libri più belli di quell'età lunghissima, che si usa ancora chiamare “decadenza”, in cui la fine del mondo classico si trasfonde in Bisanzio, dove passerà, in undici secoli, di rinascenza in rinascenza. E' qui che l'occidente ha raccolto l'eredità della ricerca greca sull'essere: attraverso il platonismo cristiano e la sua contrapposizione fra anima e corpo, fra metafora e lettera, fra esoterismo e “annuncio”. Nulla della nostra civiltà filosofica può essere compreso senza la chiave dell'incancellabile metafora escogitata allora da Origene esercitandosi sul più misterioso dei testi sacri.In un libro appena ripubblicato, Che cos'è la tradizione, Elémire Zolla distingue tra civiltà della critica e civiltà del commento. Quella alessandrina e poi bizantina fu una civiltà del commento: solo sulle corde di un testo sacro gli uomini potevano permettersi di articolare qualcosa di nuovo. Che il testo sia sacro in senso letterale, come la Bibbia canonica, o venerato in quanto classico, come Omero, o sia una via di mezzo tra questi, come il Cantico dei cantici, l'effetto non cambia. Il Cantico è un'erma testuale bifronte, che esalta un amore quanto mai fisico, profano, carnale fino all'oscenità, da una parte. Ma è già ai tempi di Origene soggetto, d'altra parte, e quasi per scommessa, alle più entusiastiche dissertazioni dei grandi conoscitori della Bibbia, a partire da Rabbi Aqiba. E' incluso d'altronde nel novero dei testi ispirati, nonostante o anzi per il suo carattere sicuramente erotico.
E' proprio questo il punto, perché sotto la denominazione di “amore” la letteratura propriamente erotica e quella mistica sfumano da sempre l'una nell'altra, restando così vicine entrambe alla sfera del sacro. Origene sottrasse al Cantico letteralità e fisicità, per accenderne in un modo che nessuno aveva prima osato l'erotismo metaforico, utilizzandolo in un senso che gli studiosi moderni chiamano psicologico. La spiritualizzazione del testo sacro mirava alla sua interiorizzazione e applicazione all'esperienza vissuta dell'uditore. Da buon platonico, Origene distinse il livello del mondo sensibile da quello del mondo intellegibile. Col bisturi della filologia neutralizzò la carne degli sposi, per lasciare tutto lo spazio al loro puro spirito. Operò, in un certo senso, come aveva operato sul suo stesso corpo.
L'evirazione di Origene, che la tradizione antica riporta, fu allora reale o simbolica? Sta di fatto che, per uno dei più fantasmagorici trompe l'oeil della letteratura universale, il Cantico con Origene perse definitivamente il suo chiaro e originario connotato realistico, di poema d'amore greco-ellenistico, scritto nello stile di Teocrito, per diventare un'allegoria dell'eros mistico, di quell'amore sofferente che sta in ogni atto di ricerca, o tentativo di creazione, o impulso di unione. La Sulamita che cerca lo sposo non è solo Israele, secondo l'interpretazione giudaica, e non è solo la Chiesa, secondo la versione cristiana vulgata. E' in primo luogo l'anima, che secondo la tradizione platonica cerca sempre, e non trova, la perfezione del Logos. Con le Omelie sul Cantico di Origene il cristianesimo antico si è affiancato agli altri grandi saperi tradizionali nell'esprimere il quaesivi et non inveni, il “cerco e non trovo”, che si applica a tutte le sfere della nostra indagine.