Dalla saggezza al male assoluto: il destino della svastica
A settantanni dalla fine del Terzo Reich, quel che resta di un simbolo pacifico snaturato per sempre dai nazisti
05/10/2015 Silvia Ronchey
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La Repubblica
Esattamente centodieci anni fa, nel 1895, un monaco cistercense austriaco di vent'anni, Adolf Lanz, appassionato di occultismo, di neopaganesimo, di riti esoterici e di religione indiana, come un po' tutti all'epoca ma forse con un ardore più sulfureo, fu espulso dalla facoltà di teologia della città dove viveva, Linz, sul Danubio, già celebre per l'omonima sinfonia di Mozart e per l'impareggiabile torta, e partì per l'India. Non lontano da Calcutta acquistò un anello che recava inciso un segno di estrema bellezza. Si trattava di un tipo di croce, e la croce, si sa, è anzitutto un simbolo solare: il pagano imperatore Costantino lo aveva visto quando aveva guardato il sole accecante alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, e di qui era nata l'improbabile leggenda eusebiana di una sua conversione al cristianesimo, da allora riflessa nell'arte occidentale fino agli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo. Ma, in particolare, l'emblema inciso sull'anello comprato da Adolf Lanz era una delle forme più notevoli di croce orizzontale: quella tracciata su un piano che per rappresentare la rotazione intorno a un centro fisso aggiunge alle estremità dei suoi rami, ad angolo retto, segmenti geometrici tangenti a un'invisibile circonferenza.
Quel segno in sanscrito era denominato swastika. Identificato da Guénon con il "segno del Polo", il punto intorno cui verte la rotazione del mondo, assimilabile, nella caotica reductio ad unum dell'esoterismo massonico del tempo, all'Invariabile Mezzo della tradizione cinese come al Motore Immobile aristotelico, nel Simbolismo della croce è collegato direttamente alla cosiddetta Tradizione primordiale anzitutto perché presente fin dalle epoche più remote nelle zone più diverse del pianeta.
Almeno questo è vero. L'orientalismo di fine Ottocento ha conosciuto la swastika perché ancora molto diffuso in oriente, in Tibet, in Cina e in Giappone oltre che in India. Nel mondo induista è emblema di Vishnu, nell'iconografia buddhista è impresso sul cuore del Buddha, nello zen l'ideogramma che lo rappresenta è immagine della coscienza iniziatica dell'eterno ritorno. Ma l'ancestrale graffito indoiranico, figura del principio ordinante che origina tutte le cose e cui tutte le cose tornano nel loro
ciclico divenire, simbolo "eracliteo" come lo definì Georges Bataille, dilaga in ogni ansa del labirinto della storia dell'iconografia globale.
Lo si ritrova nella Grecia pre-ellenica, in più varianti collegate al moto perpetuo della greca; nei vasi e nelle ceramiche del mondo etrusco, sannitico, messapico, nuragico; nell'arte dell'antica Roma, nei mosaici delle domus italiche, nella valle dei templi ad Agrigento, a Paestum. È immortalato dalla lava a Pompei e Ercolano, scolpito in Sant'Ambrogio a Milano, associato ai gammadia protocristiani e alla cosiddetta Croce del Verbo, profuso nei mosaici bizantini, in San Vitale a Ravenna, nel mausoleo di Galla Placidia. Nel medioevo occidentale è uno degli emblemi di Cristo, fiorisce nelle chiese e nelle cattedrali, si avvinghia ai simboli dell'ermetismo cristiano, in particolare carmelitano. Nel crepuscolo boreale, nei culti di Odino e di Thor, nei riti apotropaici dei popoli germanici oppressi dal tenebroso cielo nordico, ritorna simbolo solare, o augurale, come nell'arte popolare della Finlandia e dell'Estonia e sulle soglie delle case contadine della Lettonia e della Lituania, nei reperti preistorici dell'Ucraina e della koiné balcanica, dove serpeggia nei ritrovamenti neolitici della cultura Vinca. Corre a zigzag dall'uno all'altro polo, scavalca gli oceani, emerge tra i simboli sciamanici dei nativi americani, come i Navajo o i Cuna, che ancora negli anni '20 del Novecento ne fecero letteralmente bandiera della lotta contro la colonizzazione.
Furono loro per primi, i fieri indiani d'America, a volerlo sopprimere quando nella seconda guerra mondiale quel simbolo di vita e di pacifica accettazione del corso del mondo fu snaturato da ciò che lo stesso Guénon chiama «l'uso artificiale e antitradizionale dello swastika da parte dei razzisti tedeschi, i quali, con il nome fantasioso e piuttosto ridicolo di Hakenkreuz o croce uncinata, ne fecero molto arbitrariamente un segno di antisemitismo, con il pretesto che questo emblema sarebbe stato peculiare della cosiddetta razza ariana, quando invece si tratta di un simbolo veramente universale».
Per capire come mai questo segno mistico legato alla vita, alla generazione e all'accettazione dell'essere sia diventato il micidiale logo novecentesco che ancora oggi ci agghiaccia dobbiamo tornare a quell'anno 1895 che segna il suo ingresso nell'imagerie dei teosofi dal cui incerto e confuso bacino di riti, credenze e dilettantesche conoscenze nacque la mistica del Terzo Reich. Adolf Lanz utilizzò il segno inciso sull'anello come emblema della setta che fondò non appena tornò in Austria, l'Osthara, inizialmente formata per lo più da chierici protestanti rinnegati, che mescolava l'esoterismo orientalista a un antisemitismo radicale e predicava lo sterminio degli ebrei usando lo swastika come primo emblema documentato dell'ariosofia: l'esaltazione della razza ariana iperborea e del suo ruolo predestinato di purificatrice dell'umanità.
Fu da lì, dalla bandiera gialla pretenziosamente araldica di quei refoulés ecclesiastici nutriti di rivendicazioni aristocratiche e di popolani furori razziali, che la svastica divenne simbolo del neopaganesimo tedesco e poi della Thule Gesellschaft, dal cui bric-à-brac esoterico il diabolico istinto comunicatore del giovane Hitler la trasse inserendola nel 1920 nella bandiera del partito nazionalsocialista e stagliandola su fondo rosso, a imitazione di quello della contemporanea e rivale bandiera comunista. Solo alcuni intellettuali allora si accorsero della gravità del sacrilegio. Fu peraltro in seguito che Georges Bataille diede voce al «disgusto per l'accaparramento» del simbolo di cui riconosceva con empatia il significato eracliteo. Quel reimpiego suggeriva una temibile sacralizzazione del movimento hitleriano, che gli era apparso, pour cause, «un tentativo schiavista di ricomposizione monocefala della società»; e capovolgeva perciò diametralmente l'originario messaggio "sacro" di filosofica meditazione sulla complessità del mondo.
Ma i simboli, come i miti, hanno una forza intrinseca che agisce sull'irrazionale. Proprio la semplicità e universalità della svastica, unita alla tenebrosa genialità comunicativa del nazismo, della sua estetica architettonica, della sua grafica che combinava la suggestione esotista-esoterista alle geometrie Novecento, resero quella bandiera, con la sua immensa svastica nera inscritta su tondo bianco in campo rosso, una delle più forti, suggestive e terrificanti della storia.
La trasformazione novecentesca di un simbolo di accettazione cosmica in un richiamo ipnotico di intolleranza, di sterminio e di morte si conclude nell'anno e nel momento stesso che estingue per sempre la storia del nazismo: la caduta di Berlino del 1945, data in cui la cronaca, o la leggenda, testimonia un evento speculare al viaggio in India da cui Lanz portò in occidente lo swastika. Il suicidio collettivo del misterioso corpo tibetano dell'esercito nazista, scoperto o favoleggiato da un'avanguardia di soldati russi tra i fumi della battaglia, chiude il cerchio con la risonanza rituale e sacrale del contrappasso storico.
Nel cinquantennio 1895-1945, di cui ricorre quest'anno il duplice anniversario, è racchiusa la parabola del simbolo più terribile del secolo breve, che ha la forza, come quasi sempre la storia, di un avvertimento. Non solo sul potere dei simboli, sulla loro potenzialità distruttiva che ogni guru o augure o sciamano conosce e contempla, simmetrica e inversa alla loro potenza vivificatrice, ma anche sulla pervicace tendenza della natura umana al fanatismo, che scatena il contrarsi del sapere sul passato in un credo univoco e trasforma i dati relativi della storia in assoluti ideologici, in un'ansia di purificazione della loro invincibile molteplicità, ambiguità, ibridità. Il secolo scorso ha visto lo swastika posato sul cuore del Buddha, la saggezza accettatrice dell'eterno ritorno del mondo, associarsi al nazismo; ma anche la falce di Diana, della Dea Bianca, della divinità femminile generatrice, già trasformata nella mezzaluna della conquista ottomana, affiancarsi su fondo rosso al martello operaio.