Merton, l'eremita colpevole
Alla comunità di Bose un convegno sul monaco-scrittore che amava l'oriente
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Nel dicembre del 1964 un monaco trappista sedeva in un eremo del Kentucky. Nel cielo cupo i bombardieri SAC si esercitavano rombando e facendo alzare stormi di corvi. A tratti il monaco udiva le esplosioni sorde e cadenzate dell'artiglieria intorno a Fort Knox. Il simbolo del potere americano non distava neanche trenta miglia dall'abbazia di Gethsemani, in cui a ventisei anni quel monaco, Thomas Merton, si era rinchiuso con il nome di Father Louis.
La pioggia, il rumore delle armi, il boato dei bombardieri, annotò nel suo diario, distrassero a lungo le sue meditazioni: "Le 2 di notte, boati, non di cannone, più come di missili... Ora un nuovo tipo di artiglieria a ripetizione... Colpi e schianti sempre più rapidi... Di nuovo martellamento di cannoni nel pomeriggio". Ma forse, aggiunse, non doveva considerarla una distrazione: "Forse io sono qui perché loro sono là, sono qui perché devo sentirli".
A Thomas Merton è dedicato il convegno che si tiene oggi e domani al monastero di Bose. Grandi esperti, tra cui l'arcivescovo di Canterbury, parleranno di questo “cercatore la cui ricerca non è mai finita”, come lo ha chiamato il priore Enzo Bianchi, di questo pioniere partito "a esplorare un’area deserta del cuore umano".
Thomas Merton fu un mistico, uno scrittore, un poeta, un Padre del Deserto Postnucleare nel cuore dell'impero americano, allo scoccare degli Anni Sessanta, al lancio dei primi razzi nello spazio. "Quale vantaggio può venirci dal salire sulla luna se non siamo in grado di attraversare l'abisso che ci separa da noi stessi?", si domandava.
Erano i tempi in cui Kennedy, il primo presidente cattolico degli Stati Uniti, si confrontava direttamente con Kruscev e con Castro. La Guerra Fredda era al suo culmine e il Vietnam ai sui inizi. Erano passati pochi anni da Hiroshima e Nagasaki, gli esperimenti atomici nell'atmosfera si succedevano. L'apocalissi era nell'aria come le nubi radioattive nel deserto del Nevada. Milioni di dollari venivano spesi in rifugi atomici.
Di padre pittore e madre quacchera, ammiratore di Blake e Pound e di Huxley filosofo, postgraduate di Cambridge, ex-marxista, Merton era un pessimista e un apocalittico. Ma si definiva semplicemente "un monaco, ossia una persona marginale, una persona meditativa" e "un resistente". Il compito di questo tipo di persona, diceva, è "andare al di là della morte anche in questa vita".
Da ragazzo aveva vagato a lungo nella nera, fumosa New York, su quegli autobus che si prendono all'angolo di Broadway con la 110a Strada, alla ricerca del De diligendo Deo di San Bernardo: "Ma quando avevo trovato che l'unica copia buona era in latino, non l'avevo chiesta...”.
I primi anni 60 erano, ha scritto Merton, "un'epoca interessante". Non era una lode, ma un'espressione ripresa da un racconto di Camus in cui un uomo saggio pregava regolarmente perché gli fosse risparmiato "di vivere in un'epoca interessante". Poiché noi non siamo saggi, spiegava Camus, "la divinità non ci ha risparmiato e viviamo in un'epoca interessante".
"Che dovessi nascere nel 1915 ed essere contemporaneo di Auschwitz, di Hiroshima e del Vietnam", ha scritto Mertos, "sono cose su cui non sono stato consultato prima. E tuttavia sono anche cose in cui, che mi piaccia o no, sono profondamente e personalmente coinvolto". Merton fu un "monaco scomodo", un "testimone colpevole" del XX secolo, come lui stesso si definiva. Era stato in corrispondenza con Boris Pasternak, Evelyn Waugh, Jacques Maritain, Julien Green, Erich Fromm, Henry Miller, Czeslaw Milosz. Per il suo stretto legame con i gruppi di attivisti che combattevano per la giustizia razziale, il disarmo nucleare, il ritiro dal Vietnam, la pubblicazione di alcuni suoi scritti fu proibita, altri vennero bruciati per strada dai cattolici tradizionalisti della provincia americana. "Il tutto", commentava lui, "è ridicolo".
In quel dicembre del '64, nell'isolamento del suo eremitaggio, reso più profondo dal buio notturno e dalla gelida pioggia invernale, Merton guardava il mondo con gli occhi di un eremita siriano del sesto secolo, Filosseno, che stava traducendo. Amava i Padri bizantini del Deserto. Anzi, si considerava uno di loro. Definiva gli anacoreti "pionieri in cammino". Si domandava se qualche personaggio simile non potesse ancora trovarsi tra gli indiani Pueblo o i Navaho. Ma alla Tebaide si era sostituito il deserto postnucleare del ventesimo secolo, a quello di Bisanzio un altro impero.
Secondo Merton anche la nostra è un'epoca di solitari e di eremiti. Ma il nostro mondo è diverso dal loro. "I nostri lacci sono più stretti. Il rischio che corriamo è molto più atroce".
Le sue attività "non monastiche" vennero biasimate da qualche autorità ecclesiastica. Ma quando Merton scrisse le ragioni del suo impegno a Giovanni XXIII, il papa lo incoraggiò. In seguito Paolo VI gli inviò una stola come segno di approvazione. Negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II la fortuna di Merton in Italia fu immensa. Pubblicato da una grande casa editrice laica, fino alla metà degli anni 70 è stato un caso unico di grande scrittore religioso divenuto best seller universale. Ora però, dopo La montagna dalle sette balze e Nessun uomo è un'isola la ristampa delle opere di Merton si è fermata nell'editoria commerciale: "Il vantaggio non era eccessivo". I monaci di Bose continuano tuttavia a pubblicarlo, nelle edizioni Quiqajon.
Precursore come nessun altro nel secolo breve del lato profondo, spesso sottovalutato, di ciò che chiamiamo New Age, Merton trascorse l'ultima parte della vita in un'ascesi influenzata dallo yoga e dallo zen. Amò sempre di più l'Oriente. Morì il 10 dicembre 1968 a Bangkok, in una stanza d'albergo, folgorato da un ventilatore difettoso, durante un incontro ecumenico di monaci buddhisti e cristiani.
Come ha scritto Enzo Bianchi, "Merton non è molto amato, oggi, nello spazio ecclesiale: sorte comune a tutti gli uomini che hanno un messaggio profetico da comunicare". Merton fu effettivamente un profeta. Tutte le sue opere lo dimostrano, ma nessuna quanto una poesia giovanile, composta nel lontano 1947: “La luna è più pallida di un’attrice, e ti piange, New York.../ Come sono state distrutte, come sono crollate, / quelle grandi e possenti torri di ghiaccio e d’acciaio, /fuse da quale terrore e da quale miracolo?".