Hillman spiega perchè la guerra è un orrore ma anche un amore
E' irragionevole ma siamo razionali nel farla, è disumana ma la combattono gli uomini e non gli animali
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“La guerra è un amore che nessun altro amore è riuscito a vincere”, scrive James Hillman nel suo ultimo libro appena uscito da Adelphi. “La guerra appartiene alla nostra anima in quanto verità archetipica del cosmo”. Hillman, il pensatore americano che ha riportato l'idea di anima nella cultura del Novecento, cita da una corrispondenza del New Yorker le parole di un medico iracheno: “Sto tornando da una tempesta di sabbia... Ogni volta che sento questo odore, mi tornano in mente i morti... Penso alla storia dell'Iraq. Che altro è se non migliaia di anni di guerre e di uccisioni? Milioni di persone sono morte, i loro corpi fanno parte della terra che respiriamo”.
Non è un caso, nota Hillman, che la letteratura occidentale nasca con un poema dove Efesto fabbrica armi, dove Ares guida le truppe in campo aperto, dove Apollo lungisaettante porta la guerra nelle città, dove Atena è signora delle strategie. “Il guerreggiare è padre di ogni cosa”, diceva Eraclito. Eppure, spiega Hillman, nonostante la guerra sia con ogni evidenza l'elemento primario di ogni filosofia dialettica, i maggiori filosofi non hanno sondato abbastanza questo “universale fantastico” dell'uomo: il “terribile amore per la guerra” che dà il titolo al libro.
Solo alla fine della sua vita e con un saggio brevissimo Kant ha concluso con Hobbes che “lo stato di pace tra gli uomini non è uno status naturalis”. Hobbes, lui sì, tra i grandi filosofi, è per Hillman un'aurea eccezione: il solo che abbia affrontato il problema in modo esauriente. Tutti gli altri sono passati in rassegna ma archiviati con qualche delusione: da Freud a Einstein, da Simone Weil a Hannah Arendt, fino a Paul Fussel, non escludendo artisti come Goya. Anche il pensiero degli esperti di strategia viene esplorato, alla ricerca di ciò che Hillman tuttavia non trova né in Sun-zu né in Mao Zedong, né in Machiavelli né in Clausewitz, né in McNamara né in Rumsfeld. Il che lo porta a concludere che per tutti costoro la guerra è un fenomeno sostanzialmente sconosciuto ed essenzialmente incomprensibile.
La guerra, scrive, “per i nostri modelli secolari rimarrà sempre qualcosa che non possiamo immaginare né comprendere”. Solo a Michel Foucault riconosce una certa “penetrazione” nella formula che rovescia quella di Clausewitz affermando che non è la guerra “continuazione della politica con altri mezzi”, ma la politica continuazione della guerra, perché anche la politica, nella storia umana, è guerra.
La cosa interessante è che James Hillman è un pacifista. Lui e sua moglie Margot sono stati tra le centinaia di radical americani che si sono mobilitati, alle primarie dell'autunno scorso, seguendo Kerry in giro per il paese, bussando a migliaia di porte. Hillman in persona ha parlato al telefono con centinaia di votanti, dall'Ohio al Nevada, dalla Florida al New Hampshire, per spiegare personalmente perché bisognava fermare Bush. Quando la notizia della sua vittoria è stata confermata, gli amici degli Hillman hanno ricevuto una mail di scuse. “Vogliamo che sappiate quanto tremendamente siamo dispiaciuti di non essere riusciti a liberarci di quest'uomo orribile e della sua orribile amministrazione. Abbiamo lavorato molto duro, credevamo sul serio di vincere. Siamo devastati. Stiamo passando questi giorni in lutto per la nostra perdita. Ma ci riprenderemo e continueremo la lotta”.
Il fatto è che Hillman, pur essendo un intellettuale di sinistra, non è, per fortuna, un intellettuale organico. Pensa che la verità vada guardata in faccia, non negata né travisata dall'ideologia, né manipolata. E' un pensatore di professione, uno degli ultimi a utilizzare con naturalezza il pensiero critico, il che lo porta a mettersi continuamente in contrasto con l'opinione corrente. Un commentatore americano lo ha definito “uno dei guaritori spirituali più veri e profondi del nostro tempo”. In effetti, per capire il suo libro sulla guerra, bisogna tenere presente che Hillman è anzitutto un terapeuta. “Quest'analisi, con tutta la sua spietatezza”, scrive, “è un gesto di prevenzione, un tentativo di shockterapia”.
In Omero, Atena è signora delle strategie. Ma il pensiero scientifico è utile a condurre la guerra, non a spiegarla. Nessuna esegesi razionale, nessuna elencazione di cause ci illumina sul dato di fatto, l'“inevitabilità della guerra”, verso cui i popoli si precipitano ineluttabilmente e spesso con esultanza. Questa inevitabilità aveva fatto teorizzare a Tolstoj che la guerra sia governata da una forza collettiva che trascende la volontà umana individuale. Ora, il mestiere di Hillman è proprio indagare e conoscere la natura di tutto ciò che nella psiche, individuale o collettiva, trascende sia la ragione sia la volontà: in definitiva, la coscienza.
L'uomo, che si distingue come portatore di ragione, dotato di quella proiezione nel futuro che lo rende consapevole della propria morte, adopera tuttavia questa ragione e progettualità per affinare le tecniche di guerra. La guerra dunque non è disumana ma umana perché appartiene all'uomo tutto intero, includendo la sua razionalità e il suo pensiero scientifico. Come può del resto la guerra essere dichiarata disumana, come si può dire che ci fa scadere a livello degli animali, si domanda Hillman, quando a farla non sono gli animali, ad eccezione degli insetti, ma solo gli esseri umani?
Non si può certo affermare che nel fare la guerra l'uomo non sia razionale. Eppure la guerra è irragionevole. La guerra è sempre qualcosa di irragionevole. In guerra tutti perdono. Possiamo eventualmente dire che “la guerra è un'opera umana e un orrore inumano”. O possiamo immaginarla come qualcosa di inumano in senso trascendente, di inumano nel senso dell'autonomia e della divinità di una potenza divina, la guerra come un dio”.
Il metodo scientifico serve a conoscere i fenomeni, ma solo la psicologia aiuta a comprenderli. “La guerra non è un problema risolvibile con la mente pratica, che è più attrezzata per la sua conduzione che per la sua elusione o conclusione”. La pulsione alla guerra va cercata e affrontata applicando l'analisi del profondo e quella che Hillman ha fondato e denominato psicologia archetipica. Solo usando gli archetipi del mito possiamo affrontare e conoscere la guerra. “Per comprendere la guerra dobbiamo arrivare ai suoi miti, riconoscere che è un accadimento mitico... Fino agli abissi della crudeltà, dell'orrore e della tragedia, come fino alle altezze della sublimità mistica”.
Pur chiarendo che quando parla di Marte, o di Apollo, Efesto o Atena, non intende l'oggetto di un culto religioso ma il soggetto di un mito, Hillman aggiunge: come esisteva a circondare il Campo di Marte “un muro che situava il dio in un campo suo proprio, oggi il ruolo di quel muro è sostituito dal culto che circonda la guerra e il funzionamento bellico. Le forze armate hanno una loro giurisdizione, loro tribunali, loro carceri, obbediscono a codici propri, marciano al suono della propria musica, si prendono cura dei propri cimiteri”. E' un culto che per Hillman deve ridiventare un mito.
Finché ci limitiamo a disapprovare la guerra e ci vantiamo di considerarla solo “l'ultima risorsa”, non facciamo che riconoscere che la guerra “entra fra le cose prime come realtà ultima, la più potente, anzi quella determinante”. La guerra appartiene all'uomo e come tutte le cose umane, la religione, il sesso, la morte, il legame sociale, la patria, riceve significato dai miti. I miti sono la normazione dell'irragionevole e nell'identificazione è la loro virtù terapeutica.
Se la “cura col mito”, la guarigione attraverso il riconoscimento del mito, è il punto di arrivo teorico della psicologia archetipica, il metodo di analisi è eminentemente empirico. Gli strumenti collaudati dalla psicoanalisi in un secolo di pratica sul campo sono applicati da Hillman a soggetti e eventi bellici abbastanza vicini all'analista e alla storia del suo paese da poter essere osservati e studiati quasi di prima mano. Dalla guerra di secessione a quella del Vietnam, dal generale Patton alle sindromi di ufficiali e soldati combattenti nelle ultime “guerre umanitarie”, l'analisi degli stati psichici indotti dalla disciplina o dalla costrizione, dal senso della morte dei compagni o dallo shock da granata lo portano a una conclusione cruciale: “Il generale è comandato da Marte, il soldato è ispirato dalla società civile dove ancora si trova la sua anima non iniziata”.
Per l'anima non iniziata, l'umiliazione e la mutilazione rientrano nella pornografia. E' così che sia il testimone oculare a un processo per atrocità, sia lo spettatore della guerra in televisione pongono in atto uno sguardo fallico. E se anche il giornalista embedded è pagato dall'industria dello spettacolo, la complicità nei crimini di guerra non ha confini netti: “Siamo tutti appassionati voyeurs” delle guerre mediatiche e della loro infinita offerta di violenza estetizzata.
Hillman cita Proust, che nel 1915 scriveva: “Come un tempo la gente viveva in Dio, così io vivo nella guerra”. Ma usa anche la propria esperienza personale. “La guerra come emozione inspiegabile”, rifletteva già da giovane, allievo di Jung chiamato alle armi, mentre nel '44 in Francia attraversava in automobile un campo di battaglia della Grande Guerra. Pensava a Grass di Sandburg, dove l'erba esulta: “Ammucchiate alti i cadaveri, copriteli di terra, sono l'erba, lasciatemi fare il mio lavoro”. Anche se imparò solo “a fare le fasciature” e più che di cadaveri ebbe esperienza di mutilazioni devastanti, Hillman scrisse allora “poesie di guerra piene di pathos” per esprimere quella “grande emozione”. Tre anni dopo, viaggiando in Italia con un amico, visitò i campi di battaglia con “un vago turbamento, fantasticherie e una specie di sacrale tristezza”.
La guerra afferisce alla sfera del sublime. “Si potrebbe sostenere che la guerra alla televisione, nei film e nei videogiochi apra una finestra sul sublime”, scrive Hillman, rifacendosi alla Critica del giudizio e all'estetica romantica. E oggi, nello schermo televisivo o nei fogli dei giornali, “la guerra è messa in cornice come un'opera d'arte”.