Un dio chiamato guerra. Il saggio psicologico e mitologico di James Hillman
Un'analisi odierna del "terribile amore per la guerra"
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“La guerra come emozione inspiegabile”: questa fu la riflessione di James Hillman, chiamato alle armi e destinato alla sanità, mentre nel 1944 in Francia attraversava in automobile un campo di battaglia della Grande Guerra e pensava a Grass di Sandburg, dove l'erba esulta: “Ammucchiate alti i cadaveri, copriteli di terra, sono l'erba, lasciatemi fare il mio lavoro”. Concepì allora il nucleo del suo ultimo libro, Un terribile amore per la guerra? (nota 1) Comunque oggi ha bisogno di ricordare che allora, in quel momento, sentiva “una grande emozione” e che in quei giorni aveva scritto “mediocri poesie di guerra piene di pathos”, benché fosse solo “uno che aveva imparato a fare fasciature” e più che di morti avesse esperienza di devastanti mutilazioni. “Mi fermavo sempre a parlare”, ricorda, “con un marine della mia età che aveva perso tutti e quattro gli arti”. Più tardi, nel '47, viaggiando in Italia in compagnia di un amico, e poi sempre, visitando ovunque campi di battaglia, ricorda che provava “un vago turbamento, fantasticherie e come una sacrale tristezza”. Anche per militaristi, generali, ogni tipo di protagonisti scoprirà che la guerra, oltreché un terribile amore, è sempre “qualcosa di impalpabile”. Che il nostro pensiero scientifico è utile a condurre una guerra, non a spiegarla.
Nessuna esegesi razionale, nessuna elencazione di cause ci illumina su un dato di fatto, l'“inevitabilità della guerra”, verso cui i popoli si precipitano ineluttabilmente e spesso con esultanza. Quest'inevitabilità aveva fatto teorizzare a Tolstoj che la guerra sia governata da una forza collettiva che trascende la volontà umana individuale. Ora, il mestiere di Hillman, il più eretico e geniale degli allievi di Jung, è proprio indagare e conoscere la natura di tutto ciò che nella psiche, individuale o collettiva, trascende sia la ragione sia la volontà: in definitiva, la coscienza.
Hillman è un pensatore abituato a utilizzare con naturalezza il pensiero critico per mettersi di continuo in contrasto con l'opinione corrente. Ma è anche colui che è stato definito “uno dei guaritori spirituali più veri e profondi del nostro tempo”. Per capire il suo ultimo libro occorre tenere presente che il suo autore è, anzitutto, un terapeuta. “Quest'analisi, con tutta la sua spietatezza”, scrive, “è un gesto di prevenzione, un tentativo di shockterapia”.
La dialettica di Hillman, in questo straordinario libro, ha qualcosa dell'eironeia socratica, quella capacità di rovesciare ed elettrizzare ogni discorso di chi ha un nuovo modo di far pensare gli altri, scardinando e sovvertendo completamente le loro abitudini logiche. Così, il suo libro, sul tema della pace e della guerra, ha spiazzato tutti i cultori di luoghi comuni: da un lato i politicamente corretti, gli utopisti e i pacifisti, dall'altro i Realpolitiker, i sostenitori della necessità della guerra come “prosecuzione della politica con altri mezzi” secondo la definizione di Clausewitz, e dunque nel nostro tempo dell'esportazione armata della democrazia.
“Il guerreggiare è padre di ogni cosa”, diceva Eraclito. Eppure, spiega Hillman nonostante la guerra sia con ogni evidenza l'elemento primario di ogni filosofia dialettica, i maggiori filosofi non hanno sondato abbastanza questo “universale fantastico” dell'uomo: il “terribile amore per la guerra” che dà il titolo al libro. Diciamo che solo alla fine della sua vita e con un saggio brevissimo Kant ha concluso con Hobbes che “lo stato di pace tra gli uomini non è uno status naturalis”. E' Hobbes, tra i grandi filosofi, l'aurea eccezione, cioè il solo che abbia affrontato il problema in modo esauriente. I contemporanei sono passati in rassegna da Hillman ma archiviati con delusione: da Freud a Einstein, da Simone Weil a Hannah Arendt, fino a Paul Fussel. Dopo i pensatori gli artisti, a cominciare da Goya. Né il pensiero degli esperti di strategia, esplorato nel libro da Sun-zu a Mao Zedong, da Machiavelli a Clausewitz, fino a McNamara e a Rumsfeld, dà risposte, permettendo all'autore di concludere che per tutti costoro la guerra è un fenomeno sostanzialmente sconosciuto ed essenzialmente incomprensibile.
La guerra, scrive Hillman, “per i nostri modelli secolari rimarrà sempre qualcosa che non possiamo immaginare né comprendere”. Solo a Michel Foucault riconosce una certa “penetrazione” nella formula che rovescia quella di Clausewitz affermando che non è la guerra “continuazione della politica con altri mezzi”, ma la politica continuazione della guerra, perché anche la politica, nella storia umana, è guerra. Hillman è un intellettuale di sinistra, ma l'essere in qualche modo schierato non fa di lui un “intellettuale organico”. Pur intendendo esercitare influenza sul pensiero del suo tempo, per Hillman la verità va guardata fino in fondo, non negata né travisata dall'ideologia, né manipolata a fini di schieramento come fanno molti, ma analizzata in senso autenticamente fenomenologico.
Hillman nota che la letteratura occidentale nasce con un poema dove Efesto fabbrica armi, dove Ares guida le truppe in campo aperto, dove Apollo lungisaettante porta la guerra nelle città. In Omero è Atena, la dea della ragione, la signora delle strategie. E se è vero che gli si può obiettare che nasce anche con Esiodo, con la Teogonia e Le opere e i giorni e il senso numinoso della Madre Terra, è certo che l'uomo, portatore di ragione, dotato di quella proiezione nel futuro che lo rende consapevole della propria morte, adopera questa ragione e questa progettualità per affinare le tecniche di guerra. La guerra dunque non è disumana ma umana perché appartiene all'uomo tutto intero, includendo la sua razionalità e il suo pensiero scientifico. Come può del resto la guerra essere dichiarata disumana, come si può dire che ci fa scadere a livello degli animali, si domanda Hillman, quando a farla non sono gli animali, ad eccezione degli insetti, ma solo gli esseri umani?
Dunque non si può certo affermare che nel fare la guerra l'uomo non sia razionale. Eppure la guerra è irragionevole. Possiamo dire che “la guerra è un'opera umana e un orrore inumano”, ma allora possiamo immaginarla come qualcosa di inumano in senso trascendente, di inumano nel senso “dell'autonomia di una potenza divina, la guerra come un dio”. “Per comprendere la guerra dobbiamo arrivare ai suoi miti, riconoscere che è un accadimento mitico... Fino agli abissi della crudeltà, dell'orrore e della tragedia, come fino alle altezze della sublimità mistica”. La pulsione alla guerra va cercata e affrontata applicando l'analisi del profondo e quella che Hillman ha fondato e denominato psicologia archetipica. Solo usando gli archetipi del mito possiamo affrontare e conoscere la guerra.
Pur chiarendo che quando parla di Marte, o di Apollo, Efesto o Atena, non intende l'oggetto di un culto religioso ma il soggetto di un mito, Hillman ha un'espressione folgorante che ci apre alla comprensione del suo pensiero: come esisteva a circondare il Campo di Marte “un muro che situava il dio in un campo suo proprio, oggi il ruolo di quel muro è sostituito dal culto che circonda la guerra e il funzionamento bellico. Le forze armate hanno una loro giurisdizione, loro tribunali, loro carceri, obbediscono a codici propri, marciano al suono della propria musica, si prendono cura dei propri cimiteri”. E' un culto che per Hillman deve ridiventare un mito.
Finché ci limitiamo a disapprovare la guerra e ci vantiamo di considerarla solo “l'ultima risorsa”, non facciamo che riconoscere che la guerra “entra fra le cose prime come realtà ultima, la più potente, anzi quella determinante”. La guerra appartiene all'uomo e come tutte le cose umane, la religione, il sesso, la morte, il legame sociale, la patria, riceve significato dai miti. I miti sono la normazione dell'irragionevole e nell'identificazione è la loro virtù terapeutica. “L’educazione della sensibilità comincia nel reparto incurabili, la cultura nel disturbo cronico”, ha scritto Hillman nella sua opera teorica forse più importante, la Re-visione della psicologia. (nota 2) Nell’interpretazione che Hillman dà della terapia, quella che chiama patologizzazione, ossia la comprensione della condizione patologica cronica della vita stessa, è l’azione primaria del “fare anima”, di quel Soul Making che Hillman ha derivato dal celebre distico di Keats: “Chiamate, vi prego, il mondo ‘la valle del fare anima’. Allora scoprirete a che cosa serve il mondo”.
Ora, il “fare anima”, la psicopoiesi, si attua anche nella comprensione della situazione specifica dell’anima nel mondo. L’insistenza sui temi della politica contemporanea appartiene agli ultimi sviluppi e modi d’intervento del pensiero di Hillman: la reimmaginazione del mondo pubblico è per lui recupero di anima per la vita collettiva. Qui si colloca anche il dio chiamato guerra. Gli dèi malati di Hillman rivivono nei templi apocrifi della nostra civiltà. Combattono e guizzano nei serial e nei cartoon della televisione, vero tempio di Ares consacrato al sangue. Ci seducono nella violenza estetizzata e nella pornografia delle copertine dei giornali. Per l'anima non iniziata, l'umiliazione e la mutilazione rientrano nella pornografia. Se oggi, nello schermo televisivo o nei fogli dei giornali, “la guerra è messa in cornice come un'opera d'arte”, è perché la guerra afferisce alla sfera del sublime: “Si potrebbe sostenere che la guerra alla televisione, nei film e nei videogiochi apra una finestra sul sublime”, scrive Hillman, rifacendosi alla Critica del giudizio e all'estetica romantica.
E' così che sia il testimone oculare a un processo per atrocità, sia lo spettatore della guerra in televisione pongono in atto uno sguardo fallico. E se anche il giornalista embedded è pagato dall'industria dello spettacolo, la complicità nei crimini di guerra non ha confini netti: “Siamo tutti appassionati voyeurs” delle guerre mediatiche e della loro infinita offerta di violenza estetizzata.
Ma se la “cura col mito”, la guarigione attraverso il riconoscimento del mito, è il punto di arrivo teorico della psicologia archetipica, il metodo di analisi è eminentemente empirico. Anche in quest'ultimo libro di Hillman gli strumenti collaudati dalla psicoanalisi sono sempre applicati, a soggetti e eventi bellici osservati e studiati quasi di prima mano: dalle testimonianze ancora vive della guerra di secessione a quella del Vietnam, dal generale Patton alle sindromi di ufficiali e soldati combattenti nelle ultime “guerre umanitarie”, l'analisi degli stati psichici indotti dalla disciplina o dalla costrizione, dal senso della morte dei compagni o dallo shock da granata lo portano a una conclusione cruciale: “Il generale è comandato da Marte, il soldato è ispirato dalla società civile dove ancora si trova la sua anima non iniziata” a quel culto.
La cura che Hillman propone in questo libro è, per sua stessa definizione, omeopatia della psiche: “Un sale corrosivo, una specie di cottura alchemica che restituisce psiche dove la psiche era ormai assente”. (nota 3) E la sua terapia della psiche occidentale si attua nella riproposizione della sua essenza venefica, nelle sue radici, aggregazioni e formule originarie. “La civiltà è un primato storico, la cultura è un’impresa mitica… La sillaba chiave della cultura è il prefisso ri” (nota 4)
Note:
1) Un terribile amore per la guerra, Milano, Adelphi, 2005 (296 pp., 17 euro).
2) Disturbi cronici e cultura, (1982), trad. it. in Trame perdute, Milano, Cortina, 1985, p. 57.
3) Sale: un capitolo della psicologia alchemica (1981), in J. Stroud e G. Thomas, L'intatta. Archetipi e psicologia della verginità femminile, trad. it., Como, Red,1987, p. 139 = Fuochi blu (1989), a cura di T. Moore, trad. it., Milano, Adelphi, 1996, cap. VI, Il sale dell’anima, lo zolfo dello spirito, p. 188.
4) Disturbi cronici e cultura (1982), trad. it. in Trame perdute, cit., p. 55.
L'Erasmo. Trimestrale della civiltà Europea. Luglio - Agosto - Settembre 2005 (27)