Gore Vidal sulle tracce di Giuliano racconta il basso impero USA
"Giuliano" di Gore Vidal
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Allo scoccare degli anni 60 del XX secolo, all'esplodere delle prime atomiche nell'atmosfera, al lancio dei primi razzi nello spazio, gli intellettuali americani ebbero uno strano déjà vu. Si sentirono cittadini del basso impero romano. Si immersero nel IV secolo, l'era del compromesso tra lo stato imperialista e l'ideologia populista, ma sempre meno eversiva, del cristianesimo. I deserti dei due tardi imperi, quello romano e quello americano, erano popolati da ascetici freaks in fuga dal mondo. Nell'una e nell'altra decadenza gli intellettuali in rivolta avevano letto tutti i libri e ne scrivevano di allucinati e folli. Il marxista-trappista Thomas Merton faceva rivivere nelle sue pagine la Tebaide dei primi Padri. L'eccentrico Gore Vidal evocò un mito simmetrico e inverso, già celebrato da due scrittori della sinistra ottocentesca come Ibsen e Merezkovskij: l'imperatore Giuliano e il suo ultimo, paranoico tentativo di salvare dal dogmatismo cristiano l'antica tolleranza pagana. Il Giuliano di Vidal, pubblicato da Fazi (585 pp., 18.50 euro), è forse l'unico romanzo moderno che sia riuscito a attualizzare il mondo antico in modo non risibile. Provate a paragonare il suo imperatore-filosofo con lo stucchevole e affettato gemello francofono, l'Adriano della celebrata Yourcenar: non c'è confronto. Giuliano conversa nella nostra lingua, Adriano predica in falsetto. D'altra parte, rispetto al Giuliano di Vidal, sia il Claudio di Graves sia le Idi di marzo di Wilder sembrano snobistici divertissement. Erudito e trasgressivo, hippy e racé, il nipote del grande Costantino era dinoccolato e nervoso, portava la barba lunga, amava Parigi e la sua birra, il campus universitario di Atene con le sue tegole rosse, detestava le masse. Da bambino, confinato nella selvaggia Cappadocia, non aveva fatto che leggere. Padroneggiava Omero e la Bibbia, la teologia dei neoplatonici e le controversie cristologiche dei patriarchi. Era iniziato ai sacrifici di Mitra e di Cristo, che giudicava giustamente simili. Dopo le due notti dei misteri eleusini aveva capito che «facciamo parte di un ciclo infinito». I suoi maestri Eusebio di Cesarea, Mardonio, Massimo di Efeso, Libanio - erano stati cristiani come pagani. Giuliano non era né l'uno né l'altro. «Dobbiamo forse credere che non ci fosse nessun dio prima della comparsa di quel falegname sobillatore?» Giuliano era un filosofo in un'epoca in cui, come Vidal fa dire al suo alter ego Prisco, «la filosofia non offriva nulla, la Chiesa tutto». Era un mistico «in un'epoca in cui non c'era modo di venire a patti con gli dèi». Nel suo isterico progetto di restaurare una religione filosofica universale, sincretistica, in cui il dio di Platone si confondesse con quello dei galilei, il Sole degli orientali con lo Zeus degli elleni, c'era posto anche, fra Iside e Dioniso, per il Nazareno: «Un guaritore come Esculapio, e come tale da onorare». E però «la malvagità dei cristiani, quando cercano di distruggere un avversario, è unica al mondo. Nessun'altra religione ha mai creduto necessario sterminare gli altri solo perché professano un'altra fede. Nessun flagello ha mai colpito il mondo con la stessa violenza e con le stesse proporzioni del cristianesimo». Gore Vidal, che per scrivere questo libro si insabbiò nelle biblioteche delle accademie americane di Roma e Atene, si diverte a fustigare il sussiego della middle-class radical-chic tardoantica, convertita al nuovo credo insieme per moda e per arrivismo. La perfidia con cui nel 1962 dipinge Basilio, Gregorio e Macrina, i futuri santi Cappadoci, capziosi compagni di studio di Giuliano all'accademia ateniese, ci regala un precoce, profetico ritratto dei giovani borghesi che avrebbero occupato i banchi delle università europee a partire dal maggio di sei anni dopo.