Silvia Ronchey

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Noi e Bisanzio

Sir Steven all'ultima crociata

Un dandy dall'intelligenza originale, vissuto come una spia. I suoi studi furono rivoluzionari: fece a pezzi il mito delle guerre di religione e non esitò a definire «barbari» i cristiani

30/11/2003 Silvia Ronchey

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Il Sole 24 Ore

Nel ritratto fotografico che gli fece Cecil Beaton, quand'era poco più che ventenne, Steven Runciman indossava un kimono di seta e tra le dita sottili reggeva un uccello di rara bellezza, di quelli che gli antichi imperatori orientali rin­chiudevano in gabbie d’oro. An­che lui, James Cochran Steven­son Runciman, secondogenito del primo visconte Runciman di Doxford, aveva avuto in dono una bellezza rara, insieme ad altre doti raramente compatibili fra loro. Aveva un'intelligenza anti­conformista, una vocazione alla scoperta, una vera e solida cultu­ra classica, radicate nello strato sociale più alto di un impero mo­rente dall’élite chiusa c conserva­tiva, l’aristocrazia britannica. Ma la sua vita di esteta migratore e cronista della caduta degli imperi non fu mai imprigionata dalle gra­te d’oro di quella casta privilegia­ta e neppure confinata oltre una cortina di ferro, come i coetanei del gruppo di Cambridge che ave­vano cercato di porre la loro di­versità al servizio dell’impero co­munista. Il suo percorso si snodò, come il loro, da ovest verso est, ma fu se mai accostabile a quello di Maurice Bowra, il grecista di Oxford, o dello storico dell’arte Anthony Blunt, che diversamente da Philby MacLcan e dal suo ex-allievo Burgess restarono pro­tetti dalla solidità degli studi e dalla solidarietà della corona. Nato a Scotswood nel 1903, Runciman imparò il francese a tre anni, il latino a sei, il greco a sette, il russo a undici. Il bulga­ro e il turco si sarebbero aggiun­ti in seguito. Nel 1916 divenne King’s Scholar a Eton, nel 1921 History Scholar al Trinily Colle­ge di Cambridge. Ebbe compa­gni di studi brillanti come Geor­ge Orwell e Cyril Coonolly. Nel '24, dopo un primo viaggio nel Peloponneso in cui fu folgorato da Mistrà e Movemvasìa, iniziò la sua carriera di bizantinista ab­bordando l’unico storico allora interessato a quegli studi, John Bury. Purtroppo la gelosia della signora Bury, che bruciò tutte le sue lettere, non ci consente di ricostruire il contrastato rapporto fra allievo e maestro. Dopo la laurea, ottenuta nel ’27 con una tesi sul decimo secolo bizantino, percorse a piedi quasi tutta la Grecia e pubblicò i primi saggi: The Emperor Romanus Lecapenus (1929). The First Bulgarian Empire (1930), Byzantine Civilization (1933). Rimase a Cambridge, prima come Fellow, poi come Lecturer dal ’31 al ’38, quando l’eredità del nonno gli permise di dedicarsi unicamente alla scrittura. Durò poco. Allo scoppio della guerra, il dandy erudito che offriva marmellata di petali di rose a Beaton e Tennant dovette indossare la divisa. Convalescente da una grave dissenteria, costretto all'ingrato compito di censurare le lettere dei mulattieri dell’esercito cipriota, venne scovato da Guy Burgess. Fu pro­prio lui, nel '40, a fare assumere il suo ex-professore dal ministe­ro dell’Informazione.
La prima copertura fu quella di addetto stampa alla legazione bri­tannica di Sofia. Nel ’41 si trasfe­rì presso l’ambasciata del Cairo. Fu poi censore cinematografico in Palestina. Negli anni di fuoco del conflitto mondiale, dal '42 al '45, insegnò arte e storia bizanti­na all’università di Istanbul. Nel periodo dell'occupazione inglese della Grecia e della sanguinosa guerra civile, dal '45 al '41, anno in cui pubblicò il geniale The Me­dieval Manichee, fu insediato al British Council di Atene, dove frequentò "the good bandit families” di Kolonaki. Il suo fu un itinerario geopolitico, oltreché scientifico, assolutamente leggen­dario, estraneo a ogni routine ac­cademica. Runciman negò sem­pre di essere stato una spia. Ma è presente negli schedari dei Servi­zi segreti italiani, dov’è descritto come «molto intelligente e molto pericoloso».
Tenendosi stretto alla sto­ria del secolo breve, Run­ciman comprese a fondo e raccontò quella, semignorata ma lunga un millennio, dell’anti­ca autocrazia il cui fantasma sta­tale dominava ancora le società microasiatiche, slave e balcani­che in mezzo alle quali era stato inviato. Sarebbe stato impossibi­le, senza una perfetta conoscenza strategico-militare dell'assetto na­vale del Bosforo, scrivere quell’esile capolavoro, The Fall of Constantinople 1453, pubblicato nel 1965 e tradotto solo recente­mente in italiano. L'espe­rienza diretta, interna e se­greta della politica illumina­va il suo sguardo di storico, cosi come l’attualizzazione della storia lo guidava a ca­pire la politica. «La storia non è in grado di spiegarci il futuro, ma può contribui­re a spiegare il presente», scrisse nell’unico libro che dedicò al mondo moderno, The White Rajahs (I960).
L'opera che lo ha reso cele­bre, la monumentale, laica, revi­sionistica History of the Crusades (1951, 1952 e 1954), seguita da The Sicilian Vespers (1958), contribuì per prima a dissolvere la leggenda della guerra santa degli europei. Per Runciman, le crociate erano l'ultima invasione barbarica. Abbandonando la pro­spettiva eurocentrica e l'ottica papista, né svelò al pubblico la eroda realtà.
Bisanzio fu un tentativo di sta­to laico, se pure dominato da un'ideologia ultraterrena. Non dobbiamo dimenticare che la de­monizzazione di una Costantino­poli capitale di intrighi perversi e insensati, discussioni teologiche contorte e inconcludenti, retorica cortigiana, corruzione, lassismo, che lo stereotipo del "bizantini­smo” ancora oggi applica alla sfe­ra politica come sinonimo di ma­novre occulte e funambolismi verbali, vacuità pretenziosa, man­canza di costruttività o concretez­za, sono principalmente eredità ecclesiastica. Sono il frutto di un’obliterazione deliberatamente suggerita, in origine, dall’ostilità politica della curia romana verso un impero che dall’altra parte del Mediterraneo per undici secoli aveva privato il clero del potere secolare.
Nella sua Teocrazia bizantina Runciman affrontò proprio que­sto problema. Sviscerò la radice profonda dell’autocrazia, il cosid­detto cesaropapismo bizantino, che riuniva potere temporale e spirituale nella sola persona del­l'imperatore frustrando e limitan­do il ruolo della chiesa. A diffe­renza del sacro romano impero d’occidente, che, come aveva no­tato Voltaire e come Runciman sottolineò, «non era né sacro, né romano, e neanche un impero», Bisanzio mutuava dalla tradizio­ne filosofica greca, dall’eredità giuridica romana e dal neoplato­nismo ellenistico l’idea dell'auto­crate come ipòstasi di Dio in ter­ra, di un rispecchiamento tra im­pero umano e impero celeste, fra corte terrena e corte divina, che avrebbe dato vita a un sistema cerimoniale complesso, perpetua­to per millenni fino alle monar­chie di diritto divino dell’evo mo­derno, dalla corte degli csar a quella del Re Sole.
La sensibilità di Runciman per il mondo balcanico e slavo lo aveva portato del resto già da tempo, come abbiamo visto per la Storia delle crociate, a collo­carsi in un solco di studi diverso da quello, improntato all'antago­nismo confessionale, «lolla tradi­zione eurocentrica, o «romanocentrica. Scientificamente si era af­fiancato a quella che Vittorio Peri ha definito «l’autentica tran­slatio studìorum avvenuta col trapianto di uomini e di opere tradotte nei Paesi dell’Europa oc­cidentale e negli Stati Uniti nei due periodi susseguenti agli ulti­mi conflitti mondiali». Proprio in America, nella sede del Weil Institute di Cincinnati, Runci­man fu invitato a tenere le sei conferenze sulle relazioni tra sta­to e chiesa a Bisanzio, da cui nasce questo libro. Una “felice occasione”, come l’autore scris­se, «per riordinare le mie idee su una questione fondamentale».
ll Lafcadio di Gide ripartiva il genere umano tra Crostacei e Sottili. Runciman, fin dai tempi di Eton, lo divideva tra Gra­devoli e Sciocchi - tra questi ultimi includeva soprattutto intel­lettuali bigotti e accademici. Nel­la sua lunga vita si era fat­to molti amici, da Lytton Strachey a Benjamin Britten, da Lawrence d’Arabia a Lady Ottoline Mondi, da Edith Wharton a Ghiorgos Seferis. Non amava so­lo i regnanti bizantini, ma collezionava quelli a lui contemporanei.
In Grecia era stato indovino di corte di re Giorgio II, prima ancora aveva letto i tarocchi a re Fuad d’Egitto. Era un’abitudine presa da studente, nelle stanze di Nevile’s Court, tra le grisailles primo ottocento di Eros e Psiche e gli acquerelli di Edward Lear. A Pechino aveva suonato il piano a quattro mani con l’ultimo imperatore Pu Yj. Era di casa nella famiglia reale del Siam. A Gerusalemme, nella liturgia della Pasqua ortodossa del 1931 si era divertito insieme alla princi­pessa Alice a sgocciolare la cera delle candele di sego sulle mostri­ne del futuro maresciallo Montgo­mery, durante la cerimonia del Fuoco Santo.
Runciman adorava la Scozia. Sull’isola di Eigg, acquistata dal padre, si divertiva a mostrare agli amici il luogo preciso in l’anti­ca regina aveva fatto decapitare tanti martiri cristiani. Quando la famiglia vendette Eigg, alla fine degli anni 60, si trasferì a Elsie-shields nel Dumfrieshire, in una torre diroccata vicino al Lochmaben, e si dedicò alle canzoni e alle danze popolari scozzesi. Ma l'im­mensa torta del suo novantesimo compleanno ebbe la forma della basilica di Santa Sofia.
Continuò a essere un grande viaggiatore, nello spazio come nel tempo, fino a novantasette an­ni, quando, poco prima di morire, fece il suo ultimo viaggio al Mon­te Athos. (...) Scapolo da una vi­ta, si era cullato nell’idea di spo­sare un’anziana duchessa spagno­la, per ottenere alla fine l’unico titolo che riteneva gli si addices­se: quello di Duca Vedovo.


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