Un fantasma si aggira sui Balcani, il nichilismo degli ortodossi. Quel tanto di Dostojevskij che è scritto nell'animo dei serbi
Silvia Ronchey commenta Julia Kristeva
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“Sì, e adesso la guerra in Kosovo sarebbe colpa dello Spirito Santo", ironizzano nelle università e nei giornali, dopo che Julia Kristeva ha pubblicato sul Monde e sulla Stampa del 20 aprile un articolo in cui spiega, da psicanalista e filosofa, quanto sta accadendo nei Balcani in termini “bizantini”. Le radici del conflitto bellico vanno cercate, sostiene, in un conflitto profondo di civiltà, psicologico-teologico. Sono seppellite nella psiche collettiva dell’uomo ortodosso, modellata sulla millenaria alterità teologica sintetizzabile nella contesa trinitaria riguardo alla “processione” dello Spirito Santo. E’ la cosiddetta questione del “filioque”, piattaforma ufficiale dello scisma dalla Chiesa cattolica nel 1054.
Da bizantinista e da storica del cristianesimo accetto l’invito del Foglio a intervenire sull’analisi di Julia Kristeva, che solo in apparenza è un paradosso o una provocazione. Nella sostanza, Julia Kristeva ha ragione, una ragione che dovrebbe essere chiara a tutti. Ad esempio, a quel giornalista televisivo che nel corso del suo programma in prima serata ha invitato il suo già disorientato share “a non confondere le proprie idee con la storia perdendo di vista la realtà” e “a non balcanizzare il proprio cervello” introducendovi le irritanti complessità dei popoli balcanici. Come se la realtà non fosse in sé storica. Come se non bisognasse invece, per capire la storia, cercare di balcanizzare al massimo il cervello. Come in “Prima della pioggia” di Milcho Manchewski, il film macedone all’inizio celebre solo per il plagio che Quentin Tarantino aveva fatto della sua struttura a chiocciola in “Pulp Fiction”, e divenuto ora così utile, al di là delle irose dichiarazioni dell’autore, per capire la reale disposizione d’animo fra vicini di casa, nelle regioni dove fra un po’ ronzeranno apocalittici gli Apaches.
La passività e l’acquiescenza dei serbi al loro disumano regime, l’inconciliabilità tra l’“orientale” e “crudele" pessimismo sul valore della vita umana e il nostro, non meno bellicoso, utopismo umanitario, affondano le loro radici nella mentalità ortodossa perché discendono da quella sottovalutazione dell’individuo, da quella convinzione dell’irriscattabilità del mondo e della storia, che sono state irradiate da Bisanzio alla cultura slava: fino, rammenta Julia Kristeva, al disperato nichilista di Dostojevskij. Radici mentali che un grande storico di Bisanzio come Aleksander Kazdan aveva già posto al centro della sua analisi dell’uomo bizantino. La Kristeva, non inventando né fantasticando, ma attingendo a quest’ampia e sommersa letteratura specialistica, lega la psicologia collettiva “masochista" di un popolo, che anziché avversare, come in Algeria, in Iraq o in Iran, un potere iniquo, si offre a bersaglio sui ponti, alla discrepanza fra le dottrine della processione dello Spirito Santo nelle due culture.
Nella teologia occidentale cattolica, lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio: il Logos fatto materia è implicitamente innalzato allo stesso livello del Principio divino; l’Uomo divinizzato è salvabile già in terra. Nella teologia trinitaria orientale ortodossa, invece, che riprende in verità le deliberazioni conciliari dei primi secoli e dei grandi Padri, lo Spirito procede dal Padre attraverso il Figlio: finché immerso nella materia l’uomo, ancorché Logos, non è salvabile, è passivo e non può che patire nel male inevitabile del mondo. La teologia bizantina, attraverso la mistica dell’esicasmo e le sue discipline contemplative, riconduce alla tradizione ancestrale dell’Oriente platonico e gnostico, alla rinuncia buddhista al riscatto del male. Come sottolinea la Kristeva, negli anni in cui l'Europa vedeva affermarsi, con la rivoluzione francese, la trilogia repubblicana libertà-uguaglianza-fraternità, in cui si compiva con la pubblicazione della trilogia delle “Critiche” di Kant “la più lucida meditazione sull’essenza libertaria del sé umano, definito come anima libera dotata di volontà autonoma”, in Russia il mistico Paisij Velickovskij pubblicava “La preghiera del cuore", traduzione dal greco bizantino della “Filocalìa” esicasta.
Può sembrare fuori luogo dare tanta importanza alla teologia, in un’epoca di morte delle religioni e in un paesaggio geopolitico spiritualmente desertificato dall’ateismo comunista. Ma questo non ha cancellato, ricorda Julia Kristeva, “la natura psichica dell’uomo religioso ortodosso”, rinnovandola se mai “sotto una forma larvata ma non meno operante”. “Tutti senza saperlo conduciamo la nostra vita di civilizzati in una confusione veramente insensata di religioni mai del tutto morte e raramente del tutto comprese e praticate; di morali un tempo esclusive, di istinti ereditati da consuetudini completamente dimenticate, divenute tracce o cicatrici mentali”, ha scritto Denis de Rougemont analizzando la perseguitata eresia catara, versione provenzale del dualismo gnostico bizantino. Ma anche l’islamizzazione della Bosnia è direttamente collegata a quell’eresia venuta da Bisanzio, al sostrato pàtaro, alla violenta traccia che l’inquisizione cattolica lasciò in quella prospera e civile regione.
Tutti i pàtari di Bosnia, e cioè tutti i bosniaci, quando si trovarono a scegliere fra il Papa e il Turco non esitarono a scegliere il Turco. Perché? Quali sono le radici medievali del mosaico etnico-religioso balcanico? Si potrebbe domandare ai prelati cattolici, che seguitano a insistere sul carattere assolutamente non religioso del presente conflitto, quale fu il ruolo della religione cattolica e del papato nella divisione culturale di quei popoli, dall’inquisizione di Innocenzo III risalendo fino alla plurisecolare politica di assorbimento nei confronti di Dalmazia, Croazia, Ungheria, Polonia. Negando che il conflitto sia anche religioso, l’alta gerarchia ecclesiastica cattolica non fa che ricalcare, forse inavvertitamente, la fuga dalla storia del giornalista televisivo: “Non facciamoci confondere le idee dal passato”. Dal passato, non possiamo, con un po’ di fatica e forse anche di vergogna, che farcele chiarire, colmando la frattura, dovuta forse a una censura, tra questo “presente”, un divenire in bilico tra passato e futuro, e gli eventi altrettanto terribili che lo hanno prodotto.
E’ allora estremamente importante considerare anche il secondo e forse maggiore problema che Julia Kristeva propone: che cosa spiega il silenzio del patriarca di Belgrado e di tutti quelli della grande ecumène cristiano-orientale, davanti all’efferata pulizia etnica del tiranno Milosevic? Non certo, si presume, un’indifferenza morale, e la diagnosi non può essere certo moralistica (il papa cattolico buono, i patriarchi ortodossi cattivi), ma anche qui strettamente storica. Il regime in cui l’autorità laica dell’autarca assomma il potere politico e sacrale in un’unica ideologia si chiama cesaropapismo. E’ la sostanza dell’impero bizantino, perpetuato nella Terza Roma degli zar e in seguito nell’imperialismo sovietico. Quando Eisenstein nel ’44 nascose il suo personale tiranno, Stalin, sotto i panni bizantini di Ivan il Terribile, si preoccupò di evidenziare il soggiogamento del patriarca che lo aveva incoronato. E’ quella che Julia Kristeva chiama la “strumentalizzazione politica dell’ortodossia", riferendosi al secolo comunista, al quale la tradizione del cesaropapismo bizantino aveva fornito un precedente diretto ed esplicito.
Il fatto è che un fantasma si aggira sui Balcani ed è Bisanzio, l’impero romano-medievale che aveva controllato per undici secoli la politica balcanica prima della penetrazione turca. Il disfacimento di questo ruolo geopolitico, coinciso con la dissoluzione del mondo medievale, ha dato luogo a una successione praticamente ininterrotta di imperi in cui la multietnicità fungeva da denominatore comune. Dopo l’impero bizantino quello ottomano e dopo la sua caduta, e il conseguente risveglio dell’incendio etnico nei Balcani, l'Impero multinazionale sovietico.
E a questo proposito all'argomentazione di Julia Kristeva si potrebbe aggiungere una considerazione: quanto la "balcanizzazione” dei Balcani sia stata frutto della deliberata strategia politica antibizantina propugnata, in coalizione con il papato di Roma, dalla nascente Europa delle nazioni e dal protocapitalismo del traffici descritto da Braudel. Il Turco fu lasciato passare. Furono il Papa e Venezia, di fatto, a fare fallire l’ultima crociata. Quando il ruolo geopolitico di Bisanzio venne rivendicato dalla Russia (la cosiddetta politica “bizantina” degli zar) il Turco fu rafforzato per indebolirla. L’imbarazzo della storiografia medievistica, di tradizione “romana” e filopapista, porta a volte a dimenticarlo. Un imbarazzo comprensibile: come accettare che uno Stato tecnicamente laico, in cui il clero è totalmente estromesso dalla gestione temporale del potere, abbia egemonizzato culturalmente, economicamente e politicamente per ben undici secoli la storia del Mediterraneo?
E’ a partire da questa censura di fatto riguardo al passato bizantino che l'analisi politica diviene vulnerabile alla retorica dei buoni sentimenti, l’unico strumento non pertinente e non utile per analizzare un conflitto in cui, come ha sottolineato in un recente articolo quello gnostico dei nostri tempi che è Guido Ceronetti, all’indubitabile male non si contrappone il bene ma molto spesso un altro male, ed è molto improbabile che ciò che si contrappone a un errore non sia un errore a sua volta.