Non furono i turchi la rovina di Bisanzio. L'impero cadde per l'avidità di Venezia
"Venezia e Bisanzio" di Donald M. Nicol. La storia millenaria di un'antico sodalizio
Articolo disponibile in PDF
Secondo alcuni la fine di Bisanzio fu la tragedia di Venezia, secondo altri la sua imperdonabile colpa. La basilica di Santa Sofia era presidiata dagli emissari della Serenissima quando Manuele II, imperatore di Costantinopoli, aveva voluto sposarsi con addosso tutti i gioielli della corona. Per quanto antica fosse la sua dinastia, quei gioielli non gli appartenevano più: erano stati dati in pegno alla Repubblica in garanzia dei finanziamenti forniti dalle sue banche. I sovrani Paleologhi si portarono dietro quel debito come una maledizione, fino alla caduta del 1453.1 gioielli della corona di Bisanzio sono ancora oggi conservati e ammirati a San Marco, cosi come le ricchezze trafugate durante la Quarta Crociata, gU ori e le reliquie, già nel medioevo meta redditizia di pellegrinaggi. Quante volte sarà stato ripagato il debito, su cui l'usura dei dogi impoverì l'impero dei dotti? «I veneziani erano capaci di mettere un prezzo anche alla Corona di Spine», scrive Donald Nicol, massimo studioso inglese del tardo impero bizantino, in Venezia e Bisanzio, A fare cadere Bisanzio non furono i turchi: l'impero che Maometto II raccolse era già ostaggio di una logica finanziaria estranea all'antica cultura imperiale. Mentre la popolazione si ribellava contro la colonia veneziana, il governo era costretto a subire le esazioni economiche dei dogi e ad accettare prestiti a tassi d'interesse crescenti. Nella tragedia di Bisanzio, il profitto privato fu deus ex machina. Protagonista e antagonista recitarono fino in fondo le loro parti, certo i dogi furono coerenti, spesso profetici, non commisero quasi mai singoli errori. Ma l'insieme di quello che il loro operato produsse è detto da Nicol, con eufemismo anglosassone, «scarsamente credibile in un'opera di fantasia». Nicol sottopone la politica orientale di Venezia al suo atto d'accusa: allinea un'implacabile documentazione, enumera misfatti bellici e crimini d'onore. L'ultima crociata delle potenze europee contro il sultano, invocata da un'intera generazione di intellettuali oltreché dalla diplomazia di prelati e imperatori, fu compromessa e forse anche tradita da Venezia. Nella battaglia di Varna i veneziani si lasciarono corrompere per aiutare i turchi nella traversata del Mar Nero. Quando i pochi cavalieri cristiani superstiti cercarono via di scampo nessuna nave veneziana offrì loro asilo: la Repubblica si riservava di stipulare accordi commerciali coi vincitori turchi. Quando infine Costantinopoli fu assediata, la flotta del papa partì troppo tardi anche a causa del mercanteggiamento dei governanti veneziani sugli accordi finanziari per armarla ed equipaggiarla. Venezia fu il parassita di Bisanzio: l'impero veneziano, cresciuto all'interno di quello bizantino, perì con la sua morte. La dissoluzione fu rapida: capitolate in sequenza, dopo Tessalonìca e Costantinopoli, le megalopoli romeo di Mistrà e Trebizonda, le teste di ponte veneziane nel Peloponneso, il ducato di Nasso e Creta rovinarono l'una sull'altra come un castello di carte. Le nuove rotte commerciali aperte dai genovesi ai regni europei tolsero ai veneziani, per contrappasso, anche i clienti. La Serenissima immersa nell'oro piombò in una carnevalesca e sinistra decadenza.