Quando Bisanzio divenne Istanbul
"Costantinopoli, splendore e declino della capitale dell'impero ottomano" di Philip Mansel
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Il pomeriggio del 29 maggio 1453 nelle strade di Costantinopoli il sangue scorreva come l'acqua dopo un temporale improvviso e i cadaveri galleggiavano verso il mare come meloni in un canale, scrive nel suo diario Niccolò Barbaro, un testimone veneziano, tra i molti autori citati da Philip Mansel in un libro ricchissimo (Costantinopoli. Splendore e declino della capitale dell'impero ottomano 1453-1924, Mondadori, 508 pp., £ 55.000), che racconta la parabola della città di Costantino dopo quella che nella storia europea si considera in genere la sua fine: la conquista turca.
Il Conquistatore, il sultano Mehmet II, ha appena vent'anni. Legge avidamente il Corano e i Vangeli, i poeti persiani, le cronache degli imperatori, dei papi e dei re di Francia, Omero, Erodoto, Livio, Senofonte e soprattutto Arriano, il biografo di Alessandro Magno. Si identifica talmente con il conquistatore macedone da commissionare la propria biografia a un ex-dignitario greco, Michele Critobulo, e farla confezionare con la stessa carta e nello stesso formato della Vita di Alessandro della sua biblioteca. Parla turco, persiano, arabo e conosce anche il greco e il serbo-croato. E' un malinconico poeta. “Coppiere, versami del vino, che un giorno il giardino dei tulipani sarà distrutto”, dice un suo verso. Il suo ritratto più famoso, una miniatura, lo raffigura mentre avvicina alle labbra la corolla di un fiore rosso.
Il giovane sultano guada il lago di sangue, attraversando lo scenario spettrale della città in rovina in sella a un cavallo bianco, per recarsi all'Haghia Sophia, la cattedrale della Divina Sapienza costruita novecento anni prima dall'imperatore Giustiniano. I greci che a centinaia si sono rifugiati sotto l'immensa cupola vengono sottoposti dai vincitori a spaventose violenze. Le dame dell'aristocrazia sono trascinate fuori a piedi nudi, legate tra loro con una fune al collo, per entrare, racconta in una lettera Isidoro di Kiev, in harem di militari di infimo rango. I ragazzi delle migliori famiglie vengono brutalizzati e sodomizzati. Nulla di ciò turba l'atteggiamento contemplativo di Mehmet, che meditando sulla caducità di ogni gloria terrena prega Allah per la casa di Osman. Ma quando vede uno dei suoi soldati smantellare con l'ascia il pavimento di marmo bizantino, gli afferra il braccio con la mano: “Sii contento del bottino e dei prigionieri”, dice. “Gli edifici della Città lasciali a me”.
Mai poeta o viaggiatore al mondo, scrive Mandel, si estasiò per Bisanzio quanto il Conquistatore. E fu così che la città di Costantino assunse altri nomi: Gosdantnubolis, Istanbul, Zarigrado, Kushta, Rumiyya al-kubra, la Città del Pellegrinaggio, la Casa del Califfato, il Trono del Sultanato, la Casa dello Stato, l'Occhio del Mondo, il Rifugio dell'Universo, la Porta della Felicità. Santa Sofia fu tramutata in sfolgorante moschea, le rovine del Palazzo imperiale divennero la straordinaria reggia ancora oggi detta Topkapi, da Top Qapi, Porta del Cannone.
Affacciata sulla punta orientale della penisola, dove confluiscono il Bosforo, il Corno d'Oro e il Mar di Marmara e l'Europa s'incontra con l'Asia, la reggia della Sublime Porta toccò l'apice dello splendore un secolo dopo la Conquista, sotto Solimano il Magnifico: il nemico di Carlo V, il sultano che i poeti ottomani chiamavano “Imperatore del Mondo e Messia dell'Ultima Era”.
Gli inventari degli arredi di Palazzo condotti nel Seicento elencano per la sola sala del trono, e solo quanto ai decori tessili, centinaia di voci: cuscini, tappeti, imbottiture, trapunte di gemme, tessiture d'oro zecchino. Nel 1799 la moglie dell'ambasciatore inglese Lord Elgin, l'esportatore dei marmi del Partenone, riuscì, travestita da uomo, a introdursi in quella sala al séguito del marito. Il canapè su cui sedeva in penombra il Mostro — così Lady Elgin chiamava Selim III — assomigliava molto, scrive, a un letto inglese, con la differenza che il copriletto era tutto incrostato di perle gigantesche e accanto a sé il sultano aveva un calamaio formato da un'unica, enorme massa di diamanti.
Nel secolo in cui le buone maniere si insegnavano come l'equitazione e il greco, i modi perfetti dell'élite ottomana impressionavano talmente gli esponenti della nobiltà occidentale che Lord Charlemont, in visita a Istanbul nel 1749, attribuì ai visir una superiorità assoluta e oggettiva perché riusciva a sembrare non artefatta: ogni gesto dei nobili ottomani era un misto di scioltezza, grazia e dignità, a differenza — aggiungeva — della petulante aria di superiorità dell'aristocrazia francese.
Al principio dell'Ottocento la capitale della Sublime Porta è ormai nel pieno della decadenza, ma davanti alle mura soffocate dall'edera, presidiate ormai solo dalle capre, Byron può ancora scrivere: “Ho visto le rovine di Atene, di Efeso e di Delfi; ho attraversato gran parte della Turchia e molti altri luoghi d'Europa e alcuni dell'Asia; ma non ho mai visto un'opera della natura o dell'arte che mi impressionasse tanto quanto lo scenario che mi si è aperto dall'uno all'altro estremo dell'orizzonte quando ho avuto davanti agli occhi il Corno d'Oro”.