Kazhdan, storico e guerriero
L'addio allo studioso di Bisanzio
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Petrovich Kazhdan, la più geniale e agguerrita mente storica che in questo secolo abbia riflettuto su Bisanzio, era un marxista controcorrente. Mai membro del partito, sempre perseguito in Urss in quanto «cosmopolita», vale a dire ebreo, aveva sconfitto le persecuzioni staliniane, l'emarginazione, il confino e la censura che la burocrazia e l'università sovietiche gli avevano inflitto. Fuggito dall'Unione nel '78, la sua attività di storico era stata trapiantata dal 79 a Washington, nella riserva bizantina di Dumbarton Oiks. Affidata dalla miliardaria Mrs Bliss ai Trustees di Harvard, la villa settecentesca a picco sul fiume Bretomac, è circondata da acri di giardini, serre, frutteti, ma soprattutto racchiude, migliaia tra volumi e microfilm, la più grande biblioteca bizantina del mondo. Alexander Petrovich presidiava solidamente il centro di questa immensa tela di informazioni bibliografiche e per il resto viveva con durezza un'esistenza chiusa al modo di vita americano, consacrata alla sobrietà. Studiava anche di notte, bevendo tè russo. Ogni giorno attraversava silenziosamente, di buon passo, i boschi del Rock Creek. Era un grande nuotatore. Gli piaceva nuotare all'alba nell'acqua gelida, prima di mettersi sui libri. E' morto improvvisamente il 29 maggio scorso dopo una nuotata nella piscina di pietra grigia di Dumbarton Oaks circondata, in quel mese, da miriadi di rose. Era l'anniversario della caduta di Costantinopoli. Kazhdan è morto nel giorno dell'anno e nel modo in cui si era sempre augurato di morire. Aveva una forza polemica, una tenacia lavorativa, una memoria e una potenza intellettuale che lo portava a ingaggiare e vincere sfide continue. Figlio e padre di scienziati, applicava alla disciplina storica i metodi delle scienze esatte, un accanimento sui dati positivi. Ma il suo scetticismo era consapevole che i dati e le cifre non sono un'entità univoca e inalterabile: l'esperienza sovietica gli aveva insegnato che il coinvolgimento polemico può misteriosamente piegarli alla forza delle idee. La genialità di Kazhdan non era nell'esattezza del dettaglio ma nell'estrema larghezza della visione, e nelle sue opere Bisanzio letteralmente riviveva in virtù di un perpetuo transfert: con la realtà dell'Urss, con il suo statalismo e il suo totalitarismo truccati da grande utopia collettiva. Alexander Petrovich aveva al suo attivo più di 700 fondamentali pubblicazioni quando si era proposto l'impresa di scrivere la prima «storia», in senso pieno, della letteratura bizantina. Il suo disegno abbracciava otto degli undici secoli di Bisanzio, per almeno 20 mila pagine di testo. Aveva completato i primi due volumi e li stava rifinendo per la pubblicazione alla vigilia del suo 75° compleanno, che avrebbe dovuto festeggiare quest'estate in una dacia russa. La morte, improvvisa e rapida, lo ha raggiunto nel pieno dell'attività, che era ai suoi duri e scettici occhi azzurri l'unica forma possibile d'immortalità. L'ultima lettera di Kazhdan mi è arrivata poco prima della sua morte. Parlava della difficoltà a portare avanti la mole del lavoro: «Sono disperato - scriveva -, avrei bisogno di un assistente. Oppure avrei bisogno di un'officina e non ho niente, eccetto il peso degli anni e una permanente stanchezza». Come per un presentimento, ricordava il necrologio che molti anni fa aveva scritto per la morte del suo più grande avversario scientifico, lo stalinista Sjuzjumov. La sua generosità lo portava, nella lettera, ad affermare: «Era troppo intelligente e indipendente per essere un portavoce del regime. Sì, era uno stalinista e un antisemita, e tuttavia non lo era per obbedire a degli ordini, come la Udalcova, ma perché credeva nella sua ideologia». Questa era la sua visione dei nemici. Quanto agli amici, come russo sosteneva di non averne più di due o tre, tanto era profonda la sua concezione dell'amicizia. «Domenica ho portato i Ljubarskij allo Skyland, Ci sei mai stata? La primavera non è ancora arrivata del tutto fin lassù, ma le montagne sono stupende e abbiamo visto tre cervi: tanti quanti noi eravamo».