Mamma, ho perso il Partenone
Com'è un mondo in cui la storia viene cancellata? E' un luogo in cui una madre e una figlia in vacanza ad Atene vedono solo pietre, pietre a ancora pietre
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La madre e la figlia trascinarono i loro trolley dal taxi alla hall dell’albergo. Erano esauste. Dopo una notte insonne sull’aereo c’era voluta più di un’ora, nel traffico della prima mattina, ad attraversare le file di palazzi moderni, alcuni chiaramente abbandonati, altri evidentemente mai finiti, coi supporti arrugginiti del cemento armato che spuntavano in cima, molto più bassi dei grattacieli del loro paese ma troppo più alti e più tristi dei cottage suburbani in cui loro e i loro amici abitavano al di là dell’Atlantico. Dicevano che quella città, Atene, un porto sul Mediterraneo, avesse una bellezza speciale, ma dove fosse non era chiaro. Inoltre, anziché la splendente luce greca che l’agenzia di viaggi aveva promesso per quelle vacanze di Pasqua, il cielo pesante emanava un barlume lattigginoso e il vento umido prometteva pioggia. Come se non bastasse, il vecchio impiegato della reception comunicò in un inglese stentato che la loro stanza non sarebbe stata pronta prima di mezzogiorno e offrì loro di accomodarsi nel bar di una terrazza pomposamente denominata, nella loro lingua, roof garden. Si affacciava su un orto o vivaio o mercato agricolo che il vecchio greco aveva chiamato acropoli, probabilmente storpiando, si era detta la donna, la parola agropoli. In effetti, poco prima di arrivare, aveva intravisto una macchia di verde inerpicarsi su un colle affollato, alle pendici, di banchetti di cianfrusaglie e venditori di pannocchie. Ma, per stanca che fosse, la donna non aveva intenzione di stare tre ore seduta sotto un cielo gonfio di pioggia a guardare dall’alto una fiera ortofrutticola di cui avevano certamente versioni più ampie e migliori nel suo paese. La bambina non poteva essere più d’accordo. Lasciarono i trolley in un angolo dell’atrio e si inoltrarono per i vicoli del quartiere lì accanto, denominato, stando alla mappa fornita dal vecchio, “la Plaka”.
Ben presto, nella luce biancastra della mattina, persone insonnolite cominciarono ad alzare saracinesche di piccoli negozi e ad esporre all’esterno una profusione di oggetti. La bambina balzava avanti incuriosita e li osservava a uno a uno, poi tornava indietro di corsa a riferire alla madre. Erano davvero strani. Anzitutto, erano quasi tutti uguali. C’erano per esempio innumerevoli repliche della testa di un uomo con un casco da astronauta o da pilota che assomigliava un po’ a quello di Darth Vader di Star Wars, ma più misero e sollevato su un viso barbuto che non aveva nulla del supereroe. Forse in quel paese le serie televisive non erano riuscite come nel suo. Poi c’erano file e file di vasi da fiori di tristezza cimiteriale, tutti di coccio nero con sopra disegnate delle vignette di un unico colore giallastro che raffiguravano personaggi allampanati con lunghi vestiti pieghettati simili a camicie da notte. I fumetti da cui venivano non dovevano far ridere per niente. La cosa più brutta, però, erano i modellini di costruzioni. Di un bianco sporco, rappresentavano in diverse grandezze un’infinità di repliche delle stesse file di piloni scheletrici del tipo di quelli dei palazzi in costruzione, ma a un solo piano e senza mura né finestre, con una specie di tetto a punta alcune, altre addirittura senza tetto e irreparabilmente rovinate. Per quanto la bambina cercasse, non c’era niente di allegro con cui giocare. Alla fine la madre le comprò una bambola di gesso delle dimensioni e proporzioni di una barbie, che però veniva venduta senza vestiti e soprattutto non aveva le braccia.
Tornarono in albergo depresse e affamate e si rassegnarono a salire sul cosiddetto roof garden, dove avevano appena cominciato a servire il pranzo. Il bianco monotono del cielo non aveva ceduto il posto neanche al più tenue azzurro ma si era acceso di un riverbero meridiano abbagliante che accentuava i particolari delle cose. Soprattutto della visione che, quando si sedettero al tavolino, gli si spalancò davanti. La collina non era affatto consacrata ai prodotti agricoli. Lo era a qualcos’altro e lì per lì, strizzando gli occhi, non riuscirono a capire a cosa. La vetta era di roccia nuda, dello stesso bianco giallastro dei modellini da costruzione che vendevano nella Plaka, ma soprattutto — e la cosa strappò alla bambina uno strillo — si distinguevano alcuni edifici che riproducevano esattamente quei giocattoli. Alla loro distanza, erano perfino delle stesse minuscole dimensioni. Solo che erano prodigiosamente diversi. Quanto gli oggetti che avevano guardato a lungo nelle botteghe erano tristi e brutti, tanto i fantasmi di pietra che si presentavano adesso ai loro occhi erano belli e li accendevano di allegria. Il vecchio della reception, ora in divisa da cameriere, correva affannato per la terrazza e tardava a servirle, ma loro si sentivano piene di vita come se avessero già mangiato chissà che.
La luce bianca incideva i dettagli della collina con la precisione di una lente. Quelli che nei modellini sembravano piloni erano colonne dalle scanalature sottili, sormontate da fregi. Alcune avevano forma umana e l’aspetto di donne stupende che reggevano sul capo il tetto dell’edificio come i cesti di noci di cocco delle africane che avevano incontrato nel viaggio di Pasqua dell’anno prima. Tutt’intorno c’erano altri colonnati e costruzioni sgretolate e scalinate e mura in rovina, ma a quel punto accadde qualcosa che appannò loro la vista. La madre e la figlia ebbero la sensazione che quello che vedevano non esistesse veramente. O meglio, una parte di loro credeva alla testimonianza dei sensi con gioiosa meraviglia, ma un’altra parte prese il sopravvento e le trascinò altrove. Alla vertigine sulla grande ruota di un luna park in riva al mare. All’odore delle frittelle di mele nella cucina di una donna anziana. A quello di tabacco sulla giacca di un giovane uomo. All’equilibrio trovato per la prima volta su una bicicletta. Al ronzio di uno scarabeo verde sulle rose. Le riscosse il tintinnio delle posate che il vecchio stava depositando sul tavolo dentro il cestino del pane. Cosa volevano bere? “Che cosa c’è?”, chiese la donna. E la bambina, puntando il dito dritto davanti a sé, precisò: “Che cosa c’è in cima alla collina?”. Il vecchio della reception sorrise: “La storia”. Madre e figlia lo guardarono: “Che cos’è la storia?”. Frettolosamente, mentre depositava le copie plastificate dei menu prima di correre a un altro tavolo, rispose: “E’ il passato di tutti e di ciascuno”. Cadevano le prime gocce calde di pioggia. “E che cos’è il passato?”, domandò la bambina, le guance bagnate. Il vecchio sbuffò, cercando le parole: “E’ quella cosa che dovrebbe farci capire il presente”. Era già corso dall’altra parte della terrazza quando si girò: “E farci distinguere il bello dal brutto e il vero dal falso”. E poi, battendo un dito sul petto: “Non è in cima alla collina, è dentro di voi”.