C'è una Grecia che ci siamo persi. Il Mani
E' meta di viaggiatori colti e raffinati. Ma cos'ha di tanto affascinante quest'ultima propaggine, aspra e inospitale, del Peloponneso? Basta chiederlo ad un Sir inglese.
Articolo disponibile in PDF
Quando un secolo fa una tempesta trascinò verso le coste del Mani il Vanadis, lo yacht che Edith Wharton aveva noleggiato con il marito, un banchiere bostoniano, il terrore serpeggiò a bordo tra gli americani arrossati dai sole dell’Egeo. Temevano di venire assaliti dagli abitanti di quest’ultima propaggine del Peloponneso, l’antico «brazo de Mania» dei veneziani, l’equivalente mediterraneo della Cornovaglia. I manioti avevano una millenaria fama di cannibali, oltreché di pirati, briganti e ribelli. Le irte barriere delle montagne, che dalla catena del Taigeto prolungata nel Sanghiàs si estendono fino ai Monti Cattivi, i Kakovoùnia, o Terra del Malconsiglio, e di lì a nord verso Kardhamìli, hanno nascosto per duemila anni una popolazione di resistenti. I Dori non raggiunsero mai quella terra riarsa e allucinata, l'occupazione romana fu solo parziale, il cristianesimo non attecchì che dopo molti secoli non solo dalla nascita di Cristo ma anche dalla costituzione dell’impero cristiano di Costantino. La formidabile struttura amministrativa di Bisanzio non riuscì mai a domare le rivolte antistatali né, secondo alcuni, l’ostinato paganesimo degli abitanti. Quando il Peloponneso, come tutto l’impero, cadde in mano ai turchi, i manioti si rivoltarono anche contro di loro, così come contro i veneziani e contro lo stesso nuovo stato greco dopo la Guerra d’indipendenza del 1821, che peraltro ebbe inizio proprio nel Mani, il 17 marzo di quell'anno.
Ma il carattere sanguinario dei manioti non si manifestava solo contro gli estranei, anzi. Si esprimeva soprattutto nelle terribili faide interne, le cosiddette Guerre di Sangue. I duelli tra clan duravano anni, con gli uomini chiusi nei pyrgoi e le donne, immuni agli attacchi, che facevano la spola per il cibo e le munizioni. L'ultima Guerra di Sangue ebbe luogo nel 1870 a Kitta e ci volle un intero distaccamento dell'esercito greco per riuscire a farla finita.
Gli Wharton non gettarono l’ancora. Persero così una delle esperienze più straordinarie della Grecia, un viaggio a ritroso nel tempo e insieme la possibilità di contemplare la stupefacente quantità di chiese bizantine di cui brulica tutto il Mani. Abbandonate allora come del resto ancora oggi, rimaste chiuse per secoli, i loro cicli di affreschi non sono stati scoloriti dalla luce. Per vedere le loro iconostasi gremite di occhi sgranati, le loro volte affollate di ali e panneggi, il viaggiatore deve calarsi, se è magro, dall’abside, in un turbinio di pipistrelli, o inseguire per giorni il fantasmatico vecchio pastore che tiene la chiave.
James Frazer, l'autore del Ramo d’oro, scoprì il Mani mentre viaggiava sulle orme di Pausania e ne descrisse nell’omonimo libro «l’aspetto aspro e inospitale». Bruce Chatwin vi soggiornò a lungo, ne parlò poco. Lo scelse per la sua tomba. Ma, benché visitato e amato da questi e altri grandi, è dagli anni Quaranta del Novecento che il Mani ha un solo, vero, eminente custode: un gentiluomo inglese. La leggenda di «Paddy», Sir Patrick Leigh-Fermor, oggi ottantanovenne, cominciò quand’era diciannovenne e fece, nel 1933, il suo primo viaggio a piedi, da Londra a Costantinopoli. La sua meta originaria era il Monte Athos, ma poi fu felicemente sedotto da una principessa rumena e andò a vivere per qualche anno nel suo castello. Nel ’42 fu paracadutato a Creta, dove al servizio di Sua Maestà organizzò audacemente travestito da pastore la resistenza antitedesca, nella migliore tradizione degli intellettuali inglesi ellenofili del tempo, da Steven Runciman a Ronald Syme.
Alla fine della guerra Fermor fece un altro viaggio in Grecia, che avrebbe segnato definitivamente la sua vita e che raccontò in un libro memorabile, da anni venerato da viaggiatori maniaci, bizantinisti frivoli e letterati eccentrici di tutto il mondo. Oggi è stato finalmente tradotto per Adelphi con il titolo Mani. Viaggi nel Peloponneso da Franco Salvatorelli e sarà in libreria dal 15 luglio.
Un po’ a piedi, un po’ a dorso di mulo, un po' in caicco, Paddy andò da Sparta al Capo Ténaro, l’estremità meridionale della Grecia, e poi di lì indietro lungo la costa fino a Gytheion. Aveva avvistato la strana penisola affacciandosi dalle vette scoscese del Taigeto. Vi si accede tuttora varcando colossali quinte di roccia come fossero una porta che conduce a un’altra dimensione. Attraversata quella soglia, Paddy non tornò mai più indietro. Si costruì una casa a Kardhamili, dove le abitazioni sono «scrigni di pietra in cui il sole penetra da strombature profonde» e ancora le tartarughe arrivano fino alla spiaggia dorata e a chi si immerge nel mare «di un magico azzurro luminoso» basta muovere appena il piede o la mano «per suscitare sciami di bolle fosforescenti».
Al Capo Ténaro, dovere l’antico ingresso nell’Ade, Paddy si tuffò all’alba presso il tempio di Poseidone e chiese al dio un oracolo: «Mi diressi alla grotta che sbadigliava come la sbilenca mascella di una balena... Mentre entravo a nuoto ne uscì uno stormo di rondini». Fu questa buona risposta del Dio del Mare, forse, a fargli ricevere ovunque un’ospitalità omerica. Le cose gli apparvero, laggiù, immutate dai tempi dell’Odissea: «Più una regione è remota e montuosa, minore è il cambiamento». L’arrivo a Vathià «non è molto diverso da quello di Telemaco al palazzo di Nestore a Pilo o di Menelao a Sparta, luoghi così vicini a volo d’uccello. La figlia che versa l'acqua sulle mani e offre un panno di lino, la tavola prima apparecchiata e poi presentata all'ospite, la premurosa offerta di ciao e vino, il letto preparato nella parte migliore della casa, i doni alla partenza, sia pure solo una manciata di noci o un garofano o un mazzetto basilico». E l’altro continuo oracolare bisbiglio del Mani, «il rumore del vento, quando soffia tra le torri».
Fermor, bizantinista dilettante, è più grande quando non si cimenta nella descrizione della complessa civiltà di Bisanzio, ma si sofferma e descrive nei suo stile irripetibile specifici dettagli pittoreschi o grotteschi. Il suo stupore alla vista degli affreschi velati di ragnatele delle chiese lo fa pensare a «una sequenza di fumetti». Più dell’iconografia antica lo attrae quella sanguinaria ottocentesca, coi suoi martiri in gonnellino dondolanti dalle forche turche. Quando negli affreschi più antichi vede che degli occhi dei santi «raschiati o trafitti» restano solo «slabbrati buchi bianchi che fanno un’impressione penosa», annota la verità che gli racconta ridendo una giovane contadina: non sono stati i turchi, come vuole la tradizione, ma la gente del luogo, che «una volta grattava l’intonaco e spargeva la polvere sul cibo o sul vino di chi voleva fare innamorare». Quando guarda la Panaghìa, la Madonna bizantina, nell’espressione delle sopracciglia inarcate e dei grandi occhi enigmatici scorge una sfumatura canzonatoria. Gli sembra che dica: «No comment».