Nostra Signora dei Papiri
Ma l'università sempre le negò una cattedra: Luciano Canfora racconta una stora esemplare del rapporto fra potere e intellettuali, camaleonti e conformisti
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Sotto il fascismo per la prima volta nella nostra storia nazionale gli intellettuali sono diventati compartecipi del potere. Nell'Italia giolittiana un bravo accademico al massimo diventava senatore, ma non contava politicamente. Mentre l'interventismo culturale fascista ha dato agli universitari una posizione di primissima fila. L'intellettuale organico nasce col fascismo. La sua versione divulgata dagli esperti di Gramsci nel dopoguerra in finizione dell'egemonia comunista è spesso vicina al bottaismo. Una forza d'attrazione peraltro non estranea al fatto che molti di loro erano stati fascisti». A parlare è Luciano Canfora. Il suo Papiro di Dongo (Adelphi, pp.812, € 32), ambientato nelle università italiane degli Anni 30, 40 e 50, potrebbe apparire solo uno splendido saggio sul rapporto tra antichisti e regime fascista, un libro di storia del ventennio prodigiosamente documentato e moderatamente revisionista. In realtà affronta uno dei problemi cruciali del nostro presente - la crisi del ceto intellettuale italiano e in particolare della sua élite accademica - e contiene una diagnosi sul loro camaleontico Dna. La «smania di gratificazioni degli intellettuali, la corsa ai piedi del potere, il desiderio di contare e di farsi premiare», sono analizzati nel loro originario proliferare e moltiplicarsi. La politicità dei concorsi non è una scoperta, ma Canfora ne ha scoperto l'utilità documentaria. Lo studio degli incartamenti concorsuali è entrato a far parte del lavoro d'archivio dello storico. Nella parabola che Canfora ha ricostruito i concorsi a cattedra sono sanguinosi come battaglie. Dominano le vite dei protagonisti, ne determinano non solo la carriera, ma la salute mentale o la pazzia e la sopravvivenza stessa, nell'esacerbata Piccola Ilio del potere accademico. «Si scannano - dice Canfora - perché sanno che è lì il loro accesso alla classe dirigente». Morto fucilato a Dongo il papirologo Goffredo Coppola, fascista di sinistra, spia delle SS, invaghito della rivoluzione e delle "potenze proletarie". Morto in un ospedale militare il suo allievo Alberto Graziani, passato attraverso una breve ma dura esperienza di guerra, giovane fascista già critico eppure in apparenza indifferente alla persecuzione razziale. «Provo sempre simpatia e ammirazione per chi resta coerente con le sue idee, anche se alla fine diventano mostruose». Alla fine quando? «Almeno a partire dal '38». E' proprio con le leggi razziali che Coppola rompe i rapporti con Medea Norsa, sua guida per tanti anni, che fino ad allora ha appoggiato e che tradisce per passare all'avversa fazione papirologica milanese di Achille Vogliano, eroe negativo della vicenda e non a caso unico a sopravviverle indenne. Forse solo Medea Norsa, donna, ed ebrea di nascita austroungarica, epitome di ogni possibile minoranza, figura di intellettuale inappartenente, la più lucida, la più brillante per titoli eppure l'unica fra tutti a non ricevere mai una cattedra, in questa storia di discriminazioni e vendette emerge come possibile eroina. - Non che non condivida anche lei alcuni dei compromessi dell'epoca. «Non più giovane, nel tempo in cui le discipline antichistiche erano di punta per la propaganda imperiale fascista, sulla scia del disincantato maestro Vitelli anche lei si è iscritta al partito, anche lei ha esercitato il suo serio mestiere con le sovvenzioni del governo in una sorta di distratto conformismo. Ma non di doppiezza». Quando la politica le piomba addosso, Medea Norsa perde all'istante, e per sempre, la sua impoliticità. «Rivendica con coraggio il suo diritto, però nemmeno nella catastrofe, diversamente da un Momigliano - osserva Canfora -, elenca mai fra i suoi meriti la tessera di partito». Medea è forte, autorevole, intelligente, avventurosa, parla e scrive in più lingue. Sa meravigliosamente il greco, legge i papiri come pochi al mondo, ma sa anche attraversare in cammello il deserto egiziano, trattare alla pari con gli archeologi e i predatori di tombe, con i mercanti arabi e i colleghi oxfordiani. Per i quali è la più grande studiosa della sua epoca. Smagliante, coraggiosa, ironica su ogni «zucca vuota che galleggia» e che «si veste sempre del colore più opportuno», Medea, la perseguitata accademica, resta nel libro l'unico modello positivo. «Dopo il fascismo, la non benevola accademia, pur di sbarrarle il passo, la farà passare per pazza e nessuno, neppure il dotto amico cardinale Mercati, riuscirà a salvarla». Il suo distacco dalla programmatica doppiezza del mondo in cui è vissuta semignara fino al '39 non solo non la riscatterà ma finirà per darla in pasto al ceto accademico trasversale che sta ricreando alla velocità del lampo il suo tessuto lacerato. Sarà il comunista Concetto Marchesi a negare a Medea Norsa la chiamata per alta fama. Sarà il liberale Arangio Ruiz a salvare il fascista Vogliano. «Il reclutamento universitario seleziona le élites, allora e in fondo ancora oggi. Quella universitaria è, fin dal fascismo, una classe costruita e epurata all'ingresso». Dunque è sostanzialmente fascista il modello italiano di intellettuale? «Diciamo che è da allora che gli intellettuali non hanno mai perso la volontà di ricominciare a contare mettendo le tende da qualche parte». Ma come mai questa pulsione, da parte di chi dovrebbe avere invece nella società un ruolo critico? «Gli intellettuali – spiega Canfora – percepiscono molto più in fretta degli altri la direzione in cui va la storia. I corpi politici sono lenti. Gli intellettuali li anticipano sempre. Gli intellettuali, inoltre, sanno dove è il male, ma fingono di non vederlo. Gli opportunisti, i furbi intelligenti prevalgono sugli altri. L'adesione massiccia dell'élite accademica al fascismo ne è la prova». In quest'organismo che non premia i sinceri e i critici, in questo schema di comportamento perdurante al di là del regime che l'ha generato, in cui il conformismo politico regola il meccanismo d'accesso alle cattedre universitarie, la sopravvivenza della specie intellettuale è una lotta a chi è più mimetico. Canfora evoca Cantimori e il dibattito sul nicodemismo: «Siamo il paese della Controriforma, è questa la nostra vera malattia». La doppiezza dell'intellettuale, secondo Canfora, è doppia colpevolezza: «Sono più colpevoli perché più colti». Già, perché in Italia i più colti sono sempre più cinici? Ce n’erano tanti di antifascisti tra le persone semplici e molto pochi, a quanto sembra, tra i cattedratici. «Il caso di Bobbio è illuminante. La sua autogiustificazione è stata sempre, convintamente la stessa: attraversare le forche caudine del potere è orribile ma è necessario per potersi esprimere. E' il narcisismo a differenziare gli intellettuali da altri ceti ben più coraggiosamente resistenti. La convinzione che ciò che hanno da dire sia straordinario, che se c'è da pagare un prezzo lo si deve pagare, tanto è importante dirlo». L'élite intellettuale dunque è vittima di un inevitabile meccanismo entropico? «La crisi attuale del nostro sistema universitario nasce dal fatto che a lungo andare al timone non si sono ritrovate persone morali. Si sarebbero ribellate al falso rivoluzionarismo che dopo il '68 ha dato al popolo il regalo avvelenato di una falsa cultura spacciata per democratica. Chi era al timone allora, invece, non lo ha lasciato neppure quando ha visto arrivare i barbari. Leopardi aveva detto: "Dove tutti sanno poco, si sa poco". Ma non gli hanno creduto, e hanno colpito forse mortalmente l'università».