Com'era bella oziare con Ovidio
Le vacanze al tempo dei romani, dei greci, degli etruschi, dei sumeri: tra i percorsi che seguirà il "Festival del mondo antico" a Rimini
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La bella stagione riporta i tepori, / tace il furore del cielo equinoziale/alle gioiose folate di Zefiro. / E' ora di lasciare i campi della Frigia / e la pianura di Nicea fertile e infuocata:/ voliamo alle città dell'Asia», esortava se stesso Catullo. Le vacanze degli intellettuali antichi avevano una meta fissa: l'Asia Minore e la Grecia. Ad andarci non erano solo quei debosciati dei poetae novi, Catullo e i suoi amici. Il porto di Brindisi, dove ci si imbarcava per gli approdi dell'Egeo, era gremito di giovani romani. Tra le bancarelle di libri che affollavano le darsene si poteva incontrare Virgilio. Una conversazione letteraria sotto le stelle, sul ponte di una nave per il Pireo, è lo sfondo delle Notti attiche di Aulo Gellio.
In realtà quei viaggi per cui anticamente si partiva nella buona stagione non erano, in effetti, vacanze. E neanche gli altri spostamenti, non meno lunghi se anche meno avventurosi, che tutti gli antichi romani facevano quando veniva il caldo, verso le proprie ville, al mare o in campagna. La parola vacanza non esisteva, nel loro vocabolario, anche se è da un verbo latino che deriva alla nostra lingua: «vacare», «essere vuoto». Ma il «tempo vuoto», quel vacuum che oggi porta chi va in vacanza a irregimentarsi in gruppi organizzati, a trasformare i viaggi in consumi di panorami subito incapsulati nelle fotocamere digitali, quell' orribile spazio di tempo concavo che oggi è la «vacanza», per gli antichi non esisteva. C'era l’«otium», che era un'altra cosa. La parola letteralmente significava «tempo libero», ma in realtà era sinonimo della vera attività alla quale valeva la pena consacrare il tempo non assorbito dal lavoro produttivo, dal «negotium»: la lettura, la scrittura, lo studio, l'esplorazione culturale. «Otia nostra» chiama Ovidio i suoi versi. Erano «otium», nelle parole dei loro partecipanti, le conversazioni del circolo degli Scipioni. L'otium era, per eccellenza, «litteratum», dedicato alle lettere, e non solo a Tuscolo, dove Cicerone andava in vacanza - una vacanza senza una goccia di vacuum, di vuoto. Gli antichi sapevano che, altrimenti, lo spostamento verso una villa di campagna o una città straniera sarebbe stato solo una terribile illusione di libertà, un autoinganno destinato a trasformarsi in ansia e in angoscia. Lo dice esplicitamente Lucrezio in un passo del terzo libro del De rerum natura. Gli uomini, spiega, non sanno che cosa vogliono, cercano inquieti un luogo diverso dal solito dove deporre il loro peso di noia e di nulla. Il notabile romano lancia i cavalli verso la villa di campagna, li frusta ansiosamente, neanche gli stesse bruciando il tetto, tanto è impaziente di andare in vacanza, tanto spera di liberarsi così da quel peso ignoto che lo stanca, da quell'ansia di cui non sa la causa. Ma pia sulla porta della sua bella villa, eccolo che sbadiglia. Si addormenta, e la mattina dopo non riesce a non tornare in città, per la stessa strada. Sì, perché dovunque andiamo la via che percorriamo affannati è sempre la stessa, osserva Lucrezio. Ci sembrano belle solo le cose lontane. Ognuno vorrebbe fuggire da sé, ma non è possibile, e più affonda in se stesso più si odia. Per questo motivo, secondo gli antichi, non esiste vacanza.
La ricerca del vuoto, la fuga da sé, appartengono a un successivo tipo di viaggio praticato dagli antichi quando si avvicinò la fine dell'antichità. Nel terzo e quarto secolo dopo Cristo una massa crescente di abitanti delle ricche città cristianizzate della pars orientalis dell'antico impero romano, ormai diventato bizantino, prese ad andarsene, come i giovani bohémiens romani, ma spesso definitivamente. Furono chiamati «anacoreti», dal greco «ana-choreo», appunto, «me ne vado». La loro via fuori dai negotia cittadini non portava a ville e a giardini e neppure allo scintillio delle grandi città dell'Asia, ma al deserto, e divenne, per la prima volta, senza ritorno. «Eremos», in greco, designa sia il vuoto geografico, sia quello interiore. Quei primi mistici cristiani cercatori di vuoto furono chiamati, appunto, «eremiti». La loro vita divenne, programmaticamente e letteralmente, una vacanza: una permanenza in quel vacuum per cui i loro predecessori pagani avevano avuto tanto orrore e che avevano tanto coscienziosamente riempito, fuori dai loro negotia, con gli otia della loro letteratura. I cercatori di vuoto fuggivano, invece, anche la parola. Si opponevano al mondo e a qualsiasi sua logica - la logica del potere, del successo, degli onori, ma anche la logica in sé, ciò che dà senso, il logos stesso, cioè sia il concetto sia la parola - per aprire la porta a un oltremondo di continua allucinazione. Dalle visioni di Antonio in Tebaide e dall'ascesi di Evagrio si arriverà, negli undici secoli di Bisanzio, alla preghiera perpetua che svuota la mente dal «peccato del pensiero», al vuoto perpetuo degli esicasti. Nel frattempo i vacanzieri dell'io, eremiti anoressici, masochisti neomartiri, stiliti rannicchiati in cima a una colonna, diventarono non solo oggetto di ammirazione e imitazione, ma meta di vero e proprio turismo e di lunghe e lussuose vacanze dell'aristocrazia senatoria d'Oriente e d'Occidente. Nei deserti di Nitria e Sceta, di Tebaide e Calcide, muovendo dalle ricche ville dell'Aventino o dalle capanne copte, viaggiando tra le dune da soli o in gruppi, a piedi o su cocchi sormontati da baldacchini, passarono gli enfant gatés della fine del mondo antico, destinati a diventare i primi grandi santi della «Nuova Epoca» medievale cristiana. Le due Melania, Paolino da Nola, le cugine Paola e Eustochio e il loro grande amico Girolamo, dall'Occidente. I clan dei Cappàdoci dall'Oriente: Gregorio, poi vescovo di Nissa, suo fratello Basilio, detto in seguito il Grande, e il suo compagno Gregorio Nazianzeno; ma anche l'altro fratello, il ventenne Naucrazio, che si ritirò nelle grotte e nei boschi dell'Armenia, cercando l'anacoresi in un ritrovato stato di natura e che morì annegato mentre districava le sue reti da pesca nel fondo di un fiume. E anche la loro sorella Macrina, che morì di tisi per avere perseguito, in quelle anarchiche, mistiche vacanze, «l'eccesso di coerenza che accomuna l'essenza femminile all'angelica».