Roma, Africa
Nacque punica, poi sotto il dominio imperiale divenne di monumentale bellezza. Silvia Ronchey ci conduce nella città della Libia, tra le splendide colonne, il foro, la basilica e l’arco severiano testimoni di un passato glorioso
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«Un’asparagiaia di colonne»: così Cesare Brandi definì Leptis Magna. Non c’era ironia: il grande storico dell’arte era rimasto sopraffatto dalla sua bellezza. Così come Ranuccio Bianchi Bandinella che quando visitò gli scavi di Leptis annotò: «Si ammirano, vagando nel grande silenzio immobile, le tante, tante pietre squadrate, connesse, una a una, dall’immenso lavoro dell’uomo, dalla sua inquietudine, nel suo lento faticoso prender possesso del mondo».
Leptis, la seconda città dell'Africa settentrionale, nacque punica. «Prima era stata forse un attracco fenicio lungo le rotte dei metalli, verso le Baleari», spiega Luisa Musso, cattedratica a Roma, direttrice della missione archeologica italiana a Leptis, autorità mondiale sull'argomento. «La città passò poi sotto i Numidi, quando Massimissa ottenne i territori tripolitani come premio per l’aiuto a Roma contro Cartagine». Era sempre stata ricca. Lo conferma il fatto che dopo la guerra civile Cesare la multò, per avere appoggiato Pompeo, di tre milioni di libbre d’olio. «I cittadini di Leptis Magna - osserva Musso - pagarono, e fecero bene, perché cominciò allora il vero boom: quando la città, inserendosi nell’impero mondiale romano, passò da un’economia locale a una panmediterranea. Fu questo ulteriore arricchimento a consentirle di rinnovare il suo volto urbano».
La Città morta della Libia, monumentale e un po’ dannunziana, paragonabile nel suo splendore rovinografico solo a Efeso ma non altrettanto turisticizzata, ha colpito la fantasia dei non molti che sono riusciti a visitarla, nelle traversie storiche novecentesche. Tra questi Alain Robbe-Grillet, che l’ha descritta come un prodigio: «L’unica rovina verticale dell’Africa romana, in mezzo a tante città orizzontali, appiattite dalla storia». Un’idea in realtà falsa. «Leptis - spiega Musso - abbandonata dall’XI secolo, con la beduinizzazione dell’area, la calata delle tribù nomadi seguita alla prima fase della conquista araba, era tutta giù, tutta orizzontale se non altro per i crolli dovuti ai terremoti. La vediamo cosi superbamente verticale perché all’epoca in cui fu scoperta gli archeologi, man mano che scavavano, ricostruivano. Oggi non si fa più così, anzi, se mai c'è l’eccesso opposto. L’avessimo scoperta oggi, che per ogni scavo sembra si debba fare un viaggio al centro della terra, non vedremmo un bel nulla. E in teoria sarebbe giusto: Io scavo è distruzione, in quanto è conoscenza. Ma in pratica dobbiamo dire che l'archeologia '‘spettacolare" che si coltivava in quegli anni - non solo da parte italiana: fecero lo stesso i francesi nella loro fetta di Africa - ha i suoi meriti».
La propaganda imperiale del regime fascista e la sua attenzione per le opere pubbliche fecero sì che gli scavi si concentrassero sulla parte monumentale della città, sulle grandi vie, sugli edifici urbani pullulanti di statue ed epigrafi. «Vedesse - spiega Musso - che capolavoro i documentari Luce dell'epoca, quanto abilmente s’insinua la propaganda dietro le immagini della ricostruzione: il foro severiano, la basilica, la via colonnata, ossia l’asparagiaia di Brandi, l'arco dei Severi, il rifacimento completo del bacino portuale, la grande piazza tutta marmi del Ninfeo». A spiccare, a Leptis Magna, era ed è infatti la marmorizzazione, dovuta, per lo più, alla cosiddetta “addizione severiana" del III secolo.
«L’imperatore Settimio Severo racconta Musso -, che era nato lì, decise di rifare interamente il look alla città dopo avere neutralizzato i nemici politici ed essersi costruito una credibilità militare nelle campagne contro i Parti, tra il 193 e il 203. Lo fece a spese non dell’erario, dei cittadini, ma del fisco, cioè sue personali. In meno di 15 anni, tra il 203 e il 216, lui e Caracalla trasformarono Leptis in una specie di mini-Roma. Ma già l'anno dopo la chiusura dei cantieri cominciò la decadenza. Nulla fu più aggiunto, la città rimase sclerotizzata nel suo nuovo involucro. Una città del III secolo, magniloquente, marmorea, cristallizzata e decadente nella sua artificiosità: è così che la rivediamo oggi, perché è questo che piacque al colonialismo italiano portare in luce».
L’Italia coloniale scopri Leptis tra il 1911 e il 1912 e poi, dopo l'intervallo della Prima guerra mondiale, in età fascista. Ma in realtà dai Romani Leptis non fu mai colonizzata. «C’è una cartolina del Ventennio - aggiunge Musso che la dice lunga. Un marinaretto mette piede sul suolo libico, portando la sua bella bandiera della reale marina militare, e vede emergere dalla sabbia un centurione romano scheletrito, con tanto di corazza, tipo quelli che si vedono oggi ai Fori... “Tornammo dove già fummo", era il motto del colonialismo italiano. Libya te teneo!, aveva cantato D'Annunzio. Patetici generali declamavano versi latini nel teatro di Sabratha, già Vulpia Sabrata. Era una crosta ideologica semplicistica, mistificatoria, storicamente errata. Non ci furono mai centurioni romani a Leptis. Non ci fu mai neanche un governatore romano.
Non si trattò di una colonizzazione da parte di Roma, come la propaganda fascista avrebbe voluto, ma di un processo spontaneo d’integrazione».
A capire davvero come si realizzò l’alchimia di ricchezza punica e cultura romana non ci aiutano i fastosi interventi di età fascista, ma proprio i recenti scavi condotti dal dipartimento delle Antichità della Libia assieme alla missione italiana in questi vent'anni. Gli archeologi di oggi hanno rovesciato completamente il criterio dei loro predecessori. Si sono concentrati non più sul pubblico ma sul privato, e hanno principalmente lavorato sulla costa. «Per capire la realtà sociale e politica di Leptis - dice Musso - occorreva uscire dalla città. I ricchi punici amavano vivere sul mare. Scaglionate lungo la costa, lungo i venti chilometri a est e a ovest di Leptis, si trovano tutte le residenze della classe abbiente locale. Ora, queste ville non solo copiano le ville romane più illustri - come quelle del litorale laziale o della costiera napoletana, tipo Baia o Sorrento - ma assumono il modello sociale romano in tutti gli aspetti. Vale a dire? «Troviamo - continua Musso - terme private, grande lusso data la poca acqua. Troviamo giardini e spazi verdi per le passeggiate igieniche, ugualmente difficili da mantenere, e biblioteche e iscrizioni in latino. Senza parlare degli straordinari apparati decorativi». Un esempio per tutti: la villa di Silin, con il suo campionario di mosaici e pitture parietali.
«Il turista medio che visita Leptis Magna e magari viene a vedere queste domus pensa che i loro proprietari fossero romani. Ma i romani erano pochissimi: qualche banchiere, qualche commerciante. La stragrande maggioranza era punica. I cittadini di Leptis hanno voluto romanizzarsi. Si sono messi la toga, hanno cominciato ad andare a teatro. Hanno imparato il latino, anche se a Roma venivano puntualmente presi in giro. Settimio Severo si vergognava della sorella perché non lo parlava abbastanza bene. E lui stesso aveva l’accento punico, quello tipico delle lingue semitiche che non vocalizzano: per intenderci, un po’ da vu'cumprà». Dopo vent’anni di scavi. Luisa Musso è diventata quasi libica. Si trasferisce regolarmente a Leptis in autunno e in primavera. Ama anche la vicina Tripoli e ha qualche nostalgia estetizzante della città durante l'embargo, «senza un turista, senza un bar, senza il senso del denaro».
Ma anche ora che la Libia è diventata una meta turistica più accessibile, spiega, Tripoli mantiene il suo fascino e «i suoi tre cuori». Il primo è la vecchia medina, sotto la grande mole del castello, un tempo divisa tra il quartiere arabo e quello ebreo. Sotto batte il secondo cuore, la parte coloniale italiana, costruita con la distruzione dei bastioni arabi. «Lo strepitoso edificio della posta - dice Musso - e i villini degli impiegati sono opere da manuale di architettura razionalista. È impressionante seguire il passaggio dalla prima fase ancora un po’ Liberty, tra il 1911 e il 1920, all'esplosione geniale, pulitissima, essenziale degli anni successivi. È un caso unico, un museo a cielo aperto, che purtroppo non versa in buone condizioni. Andrebbe messo sotto tutela dall'Unesco». E il terzo cuore di Tripoli? «È la città gheddafiana. Vero dittatore, Gheddafi ha cambiato perfino la linea della costa, ha riplasmato, letteralmente, la geomorfologia della città. Ma ha anche portato l’acqua dal deserto. La sua - conclude Musso - è una capitale mediorientale con un involucro americano e una dolcezza di vita mediterranea. Con il clima più bello del mondo».