Mille baci di Lesbia per saziare il cucciolo impazzito
Lui era un «enfant prodige» disilluso e ingenuo, nemico di Cesare lei una ricchissima signora: si amarono e si tradirono un po' con tutti
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«Non c'è una donna che possa dire di essere stata amata tanto intensamente e sinceramente quanto da me la mia Lesbia», le scrisse. «Mai, in nessun vincolo umano, ci fu una fedeltà tanto grande quanto quella che ti ho dimostrato amandoti». Lei era bellissima, con gli occhi neri, le mani sottili, la conversazione elegante, perfino erudita. Mandò a chiamare Catullo e gli disse: «Non vorrei sposare nessuno all'infuori di te, neanche se a volermi fosse Giove in persona». Facevano l'amore in tutti i modi, quelli che a lui piacevano e a lei non dispiacevano. Erano giorni abbacinanti. Lei gli chiedeva quanti baci gli sarebbero bastati. «Quanti sono i granelli di sabbia africana intorno a Cirene ricca di Silfio, tra il tempio infuocato di Giove e il santo sepolcro dell'antico Batto», rideva lui, prendendo in giro i pedanti poeti alessandrini che aveva divorato da ragazzo. «Quante sono le stelle che nella notte silenziosa guardano gli amori clandestini degli umani», rideva lei, prendendo in giro gli ingessati poeti latini. «Tanti sono i baci che darai al tuo cucciolo impazzito per saziarlo: un conto che i pettegoli non riusciranno a tenere». Il cucciolo, il catulus, Catullo, era un enfant prodige sarcastico e moralista, disilluso e ingenuo, piombato a diciott'anni in una Roma ancora scossa dalle guerre civili. Apparteneva a una generazione di letterati precoci cui la politica aveva tolto ogni speranza. Era diventato celebre come poeta. Quanto a lei, non solo disprezzava le convenzioni del matrimonio, ma le piaceva scegliere gli uomini prima che loro osassero scegliere lei. Era in guerra con tutto il genere maschile, avrebbe detto Cicerone con disprezzo un po’ tardivo. Anche lui era stato suo amante. Lesbia sapeva rovesciare le regole del gioco amoroso. Ma non si poteva dire che fosse una prostituta, come Cicerone, furente, l'aveva definita in pubblico. Non adescava certo per soldi, era ricchissima. Apparteneva alla nobilissima gens Claudia. Era sorella di quello snob che aveva plebeizzato il loro nome contraendo «Claudio» in un «Clodio» più moderno e popolare. Publio Clodio, detto il Bello, era passato così dal patriziato alla plebe, diventandone tribuno. Catullo disprezzava la nuova classe dirigente. Cesare per lui era uno sporco invertito, un Romolo frocio. Scrisse: «Cesare, non perdo tempo a cercare di piacerti, né a capire se sei bianco o nero». L'unica era non partecipare. La letteratura, per lui e i suoi amici, era conversazione, maldicenza, oscenità. Cicerone li aveva bollati come poetae novi, «parvenus» della poesia. Lui aveva replicato: «Ti ringrazia infinitamente il cucciolo, pessimo poeta, tanto lui pessimo poeta quanto tu ottimo trombone». Lesbia, o Claudia o Clodia, a parte l'aristocratico marito aveva già una storia incestuosa col fratello. Catullo se l'era presa col Bello, ma alla sua maniera ironica. Lo aveva chiamato Lesbio. «Lesbio è proprio carino: perché no? Lesbia lo preferisce a te, Catullo, con tutti i suoi parenti. Che questo Bello venda Catullo e la sua gente, se rimedia anche solo tre baci dagli amici». Sia Lesbia sia Catullo andavano a letto un po' con tutti. Perfino Baudelaire lo chiamò «poète brutal». Una volta sorprese un adolescente a deflorare una ragazza. In un lampo d'ispirazione lo deflorò a sua volta. Poi si divertì a raccontarlo in versi, sperando di stupirla. Lei raccolse la sfida e cominciò a sedurre gli amici di Catullo, ubriacandosi con loro nelle osterie. Una volta che c'era anche lui, per provocarlo si spogliò completamente e si stese sul tavolo offrendosi agli avventori. Catullo prima si infuriò, poi cambiò tono, supplicò gli amici. Tutte, diceva, ma non lei. L'ho amata come non sarà mai amata nessuna! Alcuni decisero di consolarlo personalmente. Ma lei era insostituibile. Una volta, torturato dalla gelosia, tradusse la famosa poesia di Saffo: «Pari a un dio mi sembra, o più ancora, se è lecito dire, chi ti siede di fronte e ti guarda e ti ascolta ridere dolcemente. E io, infelice, smarrisco ogni senso». Aggiunse, in calce: «L'ozio, Catullo, ti fa male. Nell'ozio ti gonfi, ti esalti». Le scrisse: «Dicevi di conoscere solo me e di non preferirmi neanche Giove. A quel tempo ti amavo non tanto come si ama un'amante, ma come un padre ama i figli. Adesso ti ho capito. E se brucio molto più di allora, ti giudico anche molto più volgare e più leggera. Perché mai? mi chiedi. Perché un'offesa così costringe l'amante ad amare di più, ma a voler bene di meno». La sua mente era ridotta, per colpa di lei, a un tale delirio, che la odiava e la amava insieme. Ma com'è mai possibile, gli domandavano gli amici. Non lo so, rispondeva. So solo che nel profondo è così, e mi sento crocifisso. La prima volta che aveva letto le poesie d'amore di Catullo, Cicerone aveva detto: «Questo Catullo è il solo uomo a Roma a prendere sul serio la passione. Probabilmente sarà l'ultimo». Ma forse non era così. Forse Lesbia non era mai esistita, forse era tutta un'invenzione beffarda, così come il personaggio, che Catullo si era divertito a descrivere così bene, dell'amante sofferente e deluso. Forse Catullo aveva voluto, come avrebbe fatto Lucrezio, prendere in giro un cliché. Non fosse morto trentenne, Catullo sarebbe forse finito, come Rimbaud in Abissinia, nell'infuocata e amata Bitinia. Ma forse anche quella della morte precoce è una leggenda letteraria. Per esempio Scaligero sostenne che Catullo morì a sessant'anni. Anche se i suoi argomenti furono confutati da Bayle.