Errare hollywoodianum est
Tre ricercatori, appassionati contemporaneamente di cinema e di storia antica, si sono proposti di smascherare gli affronti più grossolani e le più gratuite efferatezze compiute da sceneggiatori e scenografi nella grande stagione dei Peplum come oggi
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Come preferite Cleopatra? Torbida e fatale come Theda Bara nella Cleopatra cinematografica del 1917? O spiritosamente anni 30 come Claudette Colbert in quella di De Mille? La volete matronale, come Liz Taylor nel film di Mankiewicz, o un po' lolita, come nelle pellicole dei secondi anni 60? E Marco Antonio? meglio allegro e ubriacone come Richard Burton o corrucciato e ribelle come Marion Brando? A meno che non preferiate il Massimo Ghini-Briatore del recente Augusto televisivo e la sua Cleopatra-Miss Italia in bikini. Ne abbiamo viste di tutte su Roma antica, e ancora di peggio, finora almeno, sull'antica Grecia. In attesa, dopo l'impagabile Troy, dell'Alessandro Magno/Colin Farrell di Oliver Stone e del Leonida/George Clooney del kolossal sulle Termopili, un libro appena uscito ci porta a riflettere su come si debba, e se in definitiva si possa, tutelare l'immagine dei nostri maggiori latini: quella che il racconto cinematografico, trionfante ormai su ogni mezzo scritto, fornisce alla maggioranza di noi, e perciò al nuovo sapere collettivo. In tutto quello che sappiamo su Roma l'abbiamo imparato da Hollywood (a cura di Laura e Luisa Cotta Ramosino e Cristiano Dognini, Bruno Mondadori, 230 pp., 18 euro) tre ricercatori, appassionati contemporaneamente di cinema e di storia antica, si sono proposti di smascherare gli affronti più grossolani e le più gratuite efferatezze compiute dal primo contro la seconda. Ma lo hanno fatto con estrema cautela. Perché, se è vero che il revival dei peplum cinematografici e televisivi ha suscitato in alcuni spettatori dotati di cognizioni classiche un'irresistibile sete di vendetta, è anche vero che tutelare il rapporto tra il cinema e la storia significa non tanto stilare una lista di errori, ma interpretare l'errore e, spiegandolo, spiegare la storia. Non tanto quella passata, quanto, e soprattutto, quella presente, proprio attraverso le scarpe da ginnastica degli schiavi in rivolta.
Eppure, se parliamo di storia non superficialmente ma in senso profondo, Spartacus non è forse il film più vero? La verosimiglianza con cui è reso il clima di terrore e sospetto delle guerre civili, dove la volontà di un singolo politico poteva violare ogni diritto e condannare senza processo, ha una radice precisa. Sia l'autore del romanzo da cui il film era stato tratto, sia lo sceneggiatore, e anche uno dei principali attori erano sulla lista nera del senatore McCarthy, accusati di attività filocomuniste. Spartacus è un'allegoria dell'America della Caccia alle Streghe, e in questo senso la sua lettura quanto si voglia pasticciata di una delle rivolte romane di schiavi, proprio perché interpretata in chiave metaforica e non alla lettera, è storicamente ricca. Se Dalton Trumbo affollò il suo script di allusioni al movimento spartachista della Germania del primo Novecento, l'ebreo Kirk Douglas, in conflitto peraltro col regista, impresse al suo personaggio un carattere messianico-sionista: così che la marcia del popolo degli schiavi - sottolineano gli autori del libro - finisce per evocare l'esodo delle masse di ebrei liberati dai campi di concentramento verso le coste del Medioriente. Una volta trovata la chiave, il gioco è facile e anche divertente. Ci sarà un motivo se gli sceneggiatori del Figlio di Spartaco, coeva e mitica produzione hollywoodiana, fanno sconfiggere Crasso non dai Parti, ma, in una fantomatica campagna di Cesare, dal giovane Rando, il figlio appunto del gladiatore ribelle che il generale ha fatto crocifiggere. Non sarà un caso se Cesare nel 1963 è signorile e etero come Rex Harrison e nel 2001 gay e torvo come Brandauer, ribollente di amore-odio per Vercingetorige/Christopher Lambert. Sexy e un po' new age, il leader celta è il vero eroe di Druids, girato proprio quando il processo a Milosevic incoraggiava a riconoscere nella campagna di Cesare in Gallia il carattere di sterminio etnico e di «crimine contro l'umanità» già denunciato al senato di Roma da Catone. In effetti, ogni rappresentazione dell'antichità rivela molto più del presente che del passato che illustra. Tutti i grandi hanno usato il mondo antico per dire qualcosa su quello in cui vivevano: da Racine a Brecht, da Shakespeare a Camus. Qualunque attualizzazione dell'antichità è per sua natura infedele ed è per questo che bisogna andare cauti, se non si vuole apparire ingenui, a parlare di errori storici. Quante pugnalate ha effettivamente ricevuto Cesare? Romolo e Remo furono allevati da una lupa o, come lo stesso racconto di Livio può autorizzare a credere, dalla moglie di un mandriano soprannominata così perché si prostituiva tra i pastori? Nel labirinto di miti e di leggende, l'antichità ha tramandato di sé un'immagine aperta a tanti livelli di lettura e rappresentazione che, in fondo, non fa differenza come muore Marco Aurelio, se per mano di un Commodo mafioso, come nel Gladiatore di Ridley Scott, o di peste, come dicono le fonti coeve, la cui verità tuttavia, e gli storici lo sanno, non è mai scevra di partigianeria e propaganda «Il cinema non è una fetta di vita ma una fetta di torta», sosteneva Alfred Hitchcock. Se la civiltà classica non si lascia catturare neanche dalla storiografia, figuriamoci dal cinema a meno che il regista non sia un genio visionario, come Fellini nel Satyricon. Schiavista e sanguinaria, misteriosa e sciamanica, a volte più vicina, sembrerebbe, a certe società tribali che alla nostra società moderna, l'antica Roma è troppo complessa e in fondo anche troppo inquietante per esserci servita nuda e cruda. Non troveremo mai in un peplum la verità sul mondo antico. Accontentiamoci se, addentando la fetta di torta, troviamo nell'impasto un bigliettino con una piccola verità sul mondo presente.