Il re di Asine
Barba dorata e grandi occhi azzurri, era noto in tutto il Peloponneso per la sua abilità nel cantare le imprese degli uomini e degli dèi che li muovono come marionette attaccate ai fili
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Sulla piega interna dell'ultimo braccio del Peloponneso c'è una città di nome Asine. Girando intorno alla sua acropoli, cominciando dal lato che al mattino è in ombra, il mare verde senza riflessi sembra il petto di un pavone ucciso. Non c'è anima viva, anche i colombi selvatici, quando ci si avvicina, volano via. Il muro della fortezza è misteriosamente intatto, un blocco unico senza fessure. Dalla parte del sole c'è una lunga spiaggia aperta, e la luce intaglia diamanti nelle muraglie. Asine fu fondata, si dice, da uomini venuti dal nord. Nell'età micenea era il porto più grande dell'Argolide. Dentro le mura c'era un palazzo, e dentro il palazzo un re, e quel re aveva partecipato alla guerra di Troia. Un'infinità di guerrieri erano andati a quella guerra, tanti che "neppure dieci lingue e dieci bocche e una voce instancabile e un petto di bronzo" potrebbero nominarli tutti. La folla dei guerrieri no, ma i capi sì, i re sì. Loro, nel catalogo delle navi, vengono elencati a uno a uno. Anche lui, il re di Asine, dopo Aiace e prima di Diomede. Una parola sola, Asìnen te, ferma in un angolo del cinquecentosessantesimo esametro del secondo libro dell'Iliade. Di ciascuno dei capi delle navi che partirono per Troia si sa qualcosa. Che Agamennone era vestito di bronzo abbagliante e Aiace Oilèo di una cotta di lino, e che Aiace Telamonio era il guerriero più forte e Idomeneo e Tlepòmeno erano bravi con l'asta. Si sa che Nirèo di Sime era l'uomo più bello, insieme ad Achille dal piede veloce, e che anche Eurìpilo era splendente. Tanti altri re in seguito, nelle migliaia di versi dell'Iliade, sono ricordati per una cosa, un'impresa, una frase, un gesto, un dettaglio. Ma non il re di Asine.
Neppure Odisseo, nel raccontare la guerra di Troia al re dei Feaci, parlò di lui. Né i poemi del Ritorno, né i miti staccati che come brandelli di un patchwork riaffiorano ora qua ora là a restituirci qualcosa del Ciclo. Né i tragici nelle loro tragedie, né i dotti poeti alessandrini nelle loro poesie, che attingevano agli antichi libri della grande Biblioteca, nemmeno loro parlarono del re di Asine. Né i copisti che per tutto l'impero di Bisanzio glossarono e commentarono pazientemente i poemi parlarono del re di Asine: una parola incerta gettata nell’Iliade, una maschera funebre d'oro che risuona sotto le dita come il mare sotto i remi. Eppure quel re era molto pio. Nel suo palazzo aveva costruito un santuario, una stanza rettangolare con due colonne. In un angolo c'era, e c'è ancora, una panca di pietra, e intorno c'erano, e ci sono ancora, alcune statuette femminili. Accanto, una testa di divinità. Perché il re di Asine era tanto devoto quanto caro alle Muse: soprattutto a Calliope dal bel volto, che proteggeva tutti coloro che erano bravi a improvvisare canti suonando la cetra. Era di Calliope la testa che aveva fatto scolpire, perché gli parlasse muovendo appena le labbra di pietra quando le chiedeva consiglio. Il re di Asine aveva una barba dorata che si intrecciava ai ricci che scendevano dal capo, e grandi occhi di un azzurro chiarissimo, poiché veniva dal nord, dove non c'è molta luce. I suoi occhi perciò erano deboli, ma li teneva sempre spalancati, che vi entrassero il mare, il cielo e la loro luce e con il tremolio della luce le visioni che gli inviava la Musa. Quando suo cognato Diomede, il figlio di Tidèo, venne a trovarlo, lo trovò assorto nel santuario. A nome del re di Sparta e di suo fratello il re di Micene, e in qualità di capo supremo di tutta l'Argolide, gli chiese di unire le sue navi alle loro per fare guerra a Troia. "Tìdide magnanimo", gli rispose il re di Asine, "tu sai che ho giurato davanti a quest'altare di non partecipare più a nessuna guerra da quando noi Epìgoni assediammo Tebe dalle sette porte". E Diomede: "Fammi sentire il suono della tua cetra, e poi andrò a riferire il tuo diniego". Il re di Asine era noto in tutto il Peloponneso per la sua abilità nel cantare le imprese degli uomini e degli dèi che li muovono come marionette attaccate ai fili. Sedette sul seggio più alto della sala più grande del palazzo, e mentre i servi mescolavano con acqua il vino prese la cetra. Le parole ritmate gli venivano da sole alle labbra e una strofa si legava all'altra come gli stracci variopinti con cui le donne cuciono le coperte, variegati e cangianti. Cantava della guerra contro Tebe, del padre di Diomede, Tidèo, e di Melanippo che lo ferì quasi a morte e di Anfiarào che uccise Melanippo e porse la sua testa recisa a Tidèo, che vi affondò i denti. I commensali tacevano affascinati, anche i servi, fermi con le brocche in mano. Ma il re di Asine non li vedeva, non vedeva neppure la sala e non udiva nemmeno il proprio stesso canto. Ascoltava quanto il volto di pietra della Musa gli andava sussurrando: "Va' alla guerra", diceva, "con Diomede e gli Atrìdi, ma non portare scudo né lancia: porta invece la cetra. Non combattere: guarda invece gli uomini, ciò che faranno dalle due parti del campo, e contempla, nelle visioni che ti invierò, gli dèi, ciò che li spingeranno a fare il loro cuore e le loro membra. Non spargere sangue: spargi il tuo canto, e io ti darò l'immortalità perfetta, quella che parla agli uomini per i millenni". Quando le navi furono schierate lo sguardo dilatato del re di Asine era lì a scrutarle. Le conosceva tutte. Quando Diomede e il re di Itaca si spinsero di notte dietro le linee nemiche anche il re di Asine era con loro, e vide Dolone implorare e tradire ed essere egualmente ucciso, e provò pena per lui. Vide Patroclo uccidere Sarpedòne e venire ucciso da Ettore, e provò pena per lui. Vide Achille correre per la pianura raggiante come una stella e Andromaca e Ecuba e la stessa Elena battersi il petto sulle mura, e provò pena per loro. La Musa dava ai grandi occhi del re di Asine anche la facoltà di vedere gli dèi. Vide la Moira funesta paralizzare Ettore davanti alle porte Scee. Vide scintillare sopra i piccoli duelli degli uomini i grandi scontri fra gli olìmpi. Vide Apollo e Afrodite e Poseidone e Atena entrare in campo, immensi e abbaglianti. Come gli occhi dei beduini del deserto sono abbacinati dall'orizzonte di luce sconfinata, così gli occhi chiari del re di Asine erano abbacinati dal fulgore del bronzo che lampeggiava sul petto degli eroi, dalle aureole di luce che scendevano dall'Olimpo e mandavano saette. Vent'anni durò la guerra di Troia, e negli ultimi gli occhi del re di Asme cominciarono a spegnersi. Continuando a scrutare ogni cosa, non vide che ombre. Quando alle fine la città fu in fiamme, colse solo un riflesso rossastro, e poi restò il buio brulicante di sciami di punti luminosi, tanti quante le costellazioni del cielo notturno, tanti quanti gli eroi. Perché il re di Asine era diventato cieco.