Orfeo. Divorzio da Euridice
Amore, morte e poesia. In un'antologia le variazioni di un mito che ha segnato le epoche letterarie
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Amore, morte, poesia. Cos'hanno a che fare queste tre cose? Fanno la sindrome di Orfeo, il primo dei poeti, colui che scende per amore nel regno dei morti. Il canto di Orfeo fa muovere animali, piante, pietre. Ma per questo è maledetto, è un atto di hybris, una trasgressione dell'ordine cosmico, come quella di Prometeo. Orfeo poetando smaglia l'armonia universale, la rete di rapporti musicali che sostiene tutte le cose e di cui è signore Apollo. Per contrappasso gli muore la sposa, Euridice. Orfeo compie allora un secondo atto di hybris: scavalca la soglia che divide la morte dalla vita, scende negli inferi e incanta con la sua cetra anche i sovrani di laggiù, che gli concedono, cosa inaudita, di far rivivere «lei così amata». A un patto però: per tutta la via che lo riporta dal buio alla luce e al tempo non dovrà mai voltarsi indietro. Ma Orfeo non resiste, si gira a guardare Euridice, che viene inghiottita per sempre dall'Ade. Bisognerà aspettare un altro millennio e un altro mito perché si riaffacci la possibilità di una via indietro dalla morte alla vita, di una resurrezione dei morti. Non a caso la parabola di Orfeo sarà ripresa come allegoria cristiana, a partire da Boezio, che vedrà nel voltarsi di Orfeo l'attrazione esercitata dal mondo terreno e nella perdita di Euridice la perdita della contemplazione celeste. O Orfeo sarà identificato direttamente col figlio di Dio in lotta col diavolo, come in Calderón de la Barca. Anche dopo la fine del paganesimo, quindi, il mito greco rimane vivo. Le sue figure, inabissate nel profondo dell'inconscio collettivo, riaffiorano continuamente: come sintomi, intuì Jung, perché il mito e il sintomo sono la stessa cosa, perché «se vogliamo studiare la sofferenza umana», come ha detto Hillman, «dobbiamo studiare il mito». Se parliamo del mito di Orfeo, come fa oggi il bel libro curato da Maria Grazia Ciani e Andrea Rodighiero per Marsilio, dobbiamo perciò avere ben chiaro che non stiamo solo raccontando una storia, ma analizzando un'universale lacerazione dell'anima: appunto, la sindrome di Orfeo. Amore, morte, poesia formano un triangolo, di cui la terza linea, la poesia, è quella che congiunge le prime due. Amore e morte sono i poli della contraddizione perenne della vita umana, fin dalla nascita, fin da quando, neonati, oscilliamo tra due forze: da un lato, quella che ci spingerebbe a tornare nel buio (in greco «orphé», la stessa radice del nome di Orfeo) e nell'indistinzione del ventre materno; dall'altro lato, quella del desiderio, che ci attrae verso qualcosa di altrettanto indefinibilmente caro, ma luminoso e sconosciuto. Né l'una né l'altra forza sono la vita: lo è solo la tensione fra le due. E' a questo punto che, a tentare di sanare il dissidio tra ombra e luce e tra discesa e ascesa, insorge in noi ciò che gli antichi chiamavano «poiesis», dal verbo «poiéo», «creare». La traduzione «poesia» è limitativa, perché non si tratta di una creatività solo letteraria, ma di qualsiasi forma di creazione, di interpretazione del doloroso mistero in cui viviamo. Molti «poeti» in senso stretto hanno ripreso il mito di Orfeo: da Dante a Petrarca, da Poliziano a Shakespeare, fino al Novecento «orfico» di Valéry e Rilke, Campana e Trakl, per approdare al teatro di Cocteau, Anouilh, Tennessee Williams, e al cinema, a cominciare dall'Orfeu negro di Marcel Camus fino a tanti film odierni: ultimo, l'apparentemente frivolo musical di Baz Luhrman Moulin Rouge. Per tutti costoro la sindrome di Orfeo colpisce principalmente quella categoria di esseri umani che hanno affidato alla dimensione artistica la spinta erotica alla creatività. Il libro di Ciani e Rodighiero illustra solo in parte la grande fortuna del mito, affiancando alle due principali versioni della letteratura classica, quelle di Virgilio nelle Georgiche e di Ovidio nelle Metamorfosi, quattro variazioni letterarie della modernità: la fabula commissionata dal cardinale Francesco Gonzaga a Poliziano; il sublime, visionario poemetto di Rilke, Orfeo, Euridice, Hermes, che Josif Brodskij definì «la più grande opera di questo secolo»; la pièce di Cocteau, piena di un'ironia spesso solo in parte compresa; e due testi italiani che ne derivano, il dialogo L'inconsolabile di Cesare Pavese e il racconto II ritorno di Euridice di Gesualdo Bufalino. «E' più difficile trovare la via attraverso il mondo che la via al di là del mondo», ha scritto il poeta-filosofo americano Wallace Stevens. La sindrome di Orfeo è anche questo. «Ho voltato la testa apposta», dice l'Orfeo di Cocteau. Nelle riletture moderne, Orfeo si è voltato indietro non per errore, non per improvvisa follia, ma per calcolo, si è disfatto di Euridice per rinnovare la propria ispirazione poetica, per ritrovare la creatività. L'Orfeo di Pavese comprende che ogni esperienza, anche la perdita del fantasma materno proiettato sulla persona amata, è solo una tappa nel percorso necessariamente solitario della ricerca di sé: «Ho cercato me stesso», dice. «Non si cerca che questo». E quando Orfeo lo realizza, rinuncia a Euridice e salva la poesia: «Non m'importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai», scrive Pavese. Ma sublimare l'eros nella poesia significa anche rinnegarlo. La parabola di Orfeo, a partire dalla versione di Ovidio, sfocia in un'ulteriore trasgressione: non contro Apollo, stavolta, ma contro Dioniso. L'eros si trasforma in negazione della sessualità codificata, in disprezzo e rifiuto di tutte le donne. Il canto del poeta incita non solo all'omosessualità, ma alla pederastia o alla pedofilia, di cui Orfeo viene ricordato come il fondatore. E' un terzo atto di hybris, che pagherà con la stessa morte atroce di Penteo: sarà fatto a pezzi dalle mènadi, che vendicheranno cosi l’indifferenza del poeta alle leggi della vita e della procreazione. Si dice che la testa e la lira di Orfeo, legate insieme e gettate nel mare di Tracia, siano approdate e sepolte nell'isola di Lesbo, e qui continuino a cantare.