E' ora di tornare ai classici:non ci salveranno le tre “I”
Luciano Canfora, storico del passato e dunque del presente, spiega perché studiare i greci e i romani giova al'intelligenza
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Chi non ricorda l'accanimento, nella vulgata culturale degli anni. 70, contro i classici dell'antichità? Era il periodo della cosiddetta egemonia culturale della sinistra, la cui austera tradizione, che pure aveva prodotto grandi antichisti come Concetto Marchesi e Santo Mazzarino, era stata ibridata dallo spontaneismo del '68. Nei licei girare con Pindaro sotto il braccio era un gesto reazionario; con Cicerone, una provocazione fascista. Le sole letture possibili, nel futile magazzino del passato, erano quelle garantite dai pronunciamenti, inconfutabili quanto spesso fortuiti, dei precursori del futuro: Balzac, salvato da Marx per la sua crudele analisi del mondo ottocentesco; Mann, salvato da Lukàcs per la sua intuizione «che la società borghese non può essere la forma definitiva della società umana». Quanto al resto, una formazione virtuosa e timorata contemplava un patchwork di contemporanei bizzarro e diseguale: Pavese e Neruda, Gramsci e Marquez, Brecht e Fo. Sono sopravvissuti in pochi a quei diktat, in pochi hanno continuato a credere che lo studio dei greci e dei romani giovasse all'intelligenza dei moderni, secondo il titolo della nuova edizione, ampliata e arricchita, del fondamentale libro di Luciano Canfora: Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all'intelligenza dei moderni. In pochissimi, allora, avevano la cultura e il coraggio di spiegare il perché. Canfora lo ha sempre fatto, col suo sguardo trasversale alle epoche e agli schieramenti, con la sua critica esercitata sui testi come sulle forme di governo e di potere. E continua a farlo, da storico del passato e dunque del presente, avendo presenti cioè tutti i presentì che il tempo ha scaglionato nel suo corso; sapendo che ogni storia è contemporanea finché non possiamo liberarcene, e che ci siamo liberati finora di ben poche, e forse di nessuna. Se oggi gli antichi non si studiano di fatto più nelle scuole, se l'idiosincrasia verso il passato induce sempre più spesso a non tenere conto dei precedenti di quanto accade, che siano vecchi di millenni o solo di qualche anno, è anche a causa dell'ideologia che ha formato l'èlite generazionale oggi dominante. La si poteva pensare derivata dal progressismo bolscevico, se nell'Internazionale il poeta comunardo Pottier proclamava: «Del passato facciamo tabula rasa». Ma in realtà era già nata nella Rivoluzione Francese, come spiega Canfora, quando lo studio del greco e del latino fu ridotto a un livello elementare e fu bloccata la possibilità di stampare i testi dì storici come Tucidide perfino in traduzione. «Ci siamo tanto allontanati dagli antichi, li abbiamo talmente distaccati sulla via della verità, che bisogna avere la propria ragione completamente corazzata perché quelle preziose spoglie possano arricchirla senza corromperla!», predicava Condorcet nel Rapporto generale sull'Istruzione pubblica presentato all'Assemblea Legislativa nella primavera del 1792, un anno prima del Terrore. Il timore che i «giganteschi modelli» dell'antichità classica divenissero pericolosi nelle mani dei nuovi soggetti fatti emergere dalla Rivoluzione si consoliderà, segnala Canfora, nella riflessione immediatamente successiva. Se già il termidoriano Volney nel 1795 negava il carattere libertario ed egualitario della democrazia antica, dopo la riabilitazione dell'antichità classica sotto Bonaparte sarà Beryamin Constant, nel Discorso sulla libertà degli antichi, a insistere, oltreché sulla pochezza delle conoscenze storiche dei giacobini, sul «carattere oppressivo del modello politico antico». La parabola sarà compiuta, prima della metà del secolo, da Tocqueville, che nel secondo volume della Democrazia in America giudicherà Atene col suo suffragio universale «nient'altro che una repubblica aristocratica» e la lotta dei patrizi e dei plebei a Roma «solo una lotta intestina fra i cadetti e i primogeniti di una stessa famiglia». La distruzione del mito della democrazia classica sarà così compiuta e lo stesso Tocqueville affermerà che «non esiste una letteratura che meriti più di essere studiata nei secoli democratici» e che «nelle società democratiche l'interesse degli individui così come la sicurezza dello Stato esigono che l'educazione della maggioranza sia scientifica, commerciale e industriale piuttosto che letteraria». Ecco che, nel giro dì mezzo secolo, rivoluzione e reazione si alleano nel negare l'utilità politica dell'antico, creando il presupposto per la micidiale catena che, dalla fobia per il passato dell'utopia progressista, ha portato ora la nostra istruzione pubblica alla parola d'ordine delle tre «i»: internet, inglese, impresa. Come e perché si sia arrivati, nel nome del progresso, a procurare il regresso non solo della cultura letteraria data per morta, ma della coscienza politica cui sì intendeva dare vita; da quali lotte e utopie abbia avuto origine la rimozione dell'antichità: questo e molto altro spiega il libro di Canfora. Sezionatore di ideologie, smantellatore di dogmi, fustigatore di conformismi, Canfora è uno scomodo maestro. Ma, come diceva Boswell, «i suoi dubbi valgono più delle certezze della maggior parte».