Sull'Olimpo il riso era incontenibile
La prima grande liberatoria risata delle divinità ' pagane e' quella che Ulisse narra ai feaci nell'Odissea. L'ultima riecheggia nel "Simposio" di Giuliano l'Apostata nel IV secolo d.c.
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Platone condannava Omero per avere osato raccontare «il riso inestinguibile {asbestos gelos) degli dèi». Aveva un'enormità tale, quel riso, quando esplodeva fra gli immortali, una tale potenza, da sconvolgere il filosofo. La gamma del riso olimpico era vasta e variegata. C'era il riso d'ordine, come l'ha chiamato Cristiano Grottanelli, quel riso di esclusione che ridimensiona e umilia figure anomale e basse, come Efesto e Tersite. C'era il riso rituale, come Vladimir Propp ha classificato quello di Demetra alla vista di Baubo, la vecchia oscena. C'era anche il riso dell'ira, come quando Era dalle bianche braccia ride con le labbra aggrottando le sopracciglia nere. Ma in genere quando scoppiavano a ridere gli dèi dell'Olimpo si torcevano e si sbellicavano. La prima grande, collettiva, liberatoria risata degli dèi pagani è quella che Odisseo narra ai Feaci nel settimo canto dell'Odissea. Quando Afrodite tradì Efesto con Ares, il Sole fece la spia. Lo sposo tradito scese furibondo nella sua fucina e forgiò delle catene fortissime, che nessuno avrebbe potuto infrangere, sottili però come fili di ragno, che nessuno avrebbe potuto scorgere. Vi imbozzolò il talamo della sua casa, poi finse di partire. Quando Ares e Afrodite andarono a letto, una volta entrati restarono immobilizzati, incapaci di muovere anche solo le dita del piede. C'è chi dice che la scena dì Ares, Afrodite e Efesto abbia un significato esoterico, legato all'armonia cosmica e alla musica delle sfere. I due divini amanti erano anche oggetti astrali. Sia quel che sia, appena Efesto li chiamò, gli dèi si raccolsero sulla soglia di bronzo e rimasero per un attimo immobili nel portico a guardare. Poi scoppiarono in un incontenibile fou rire di cento memorabili versi. L'ultima grande, collettiva, liberatoria risata degli dèi echeggia in un'opera successiva alla loro morte, denunciata dal sacerdote delfico Plutarco, quando era già nato Cristo. «Il grande dio Pan è morto», aveva scritto. Quattro secoli dopo, Giuliano, l'imperatore filosofo, sognò di richiamare gli dèi in vita, restaurando il paganesimo o meglio imponendo all'impero una religione universale, sincretistica, in cui il Sole degli orientali si confondesse con lo Zeus degli ellèni, il dio filosofico di Platone con quello dei galilei.
Giuliano non riuscì nel suo tardivo progetto, ma scrisse un pamphlet intitolato I Cesari o il Simposio o i Saturnali. In quelle pagine riunì di nuovo per l'ultima volta sull'Olimpo gli antichi dèi, in occasione appunto della festa romana in cui il mondo per un giorno va alla rovescia. E invitò a unirsi a loro gli imperatori divinizzati, per scegliere chi far salire come re del carnevale pagano sul trono di Zeus. Il satiro Sileno faceva da buffone. Giulio Cesare era altezzoso, Ottaviano un camaleonte, Tiberio un vecchio satiro, Vespasiano uno spilorcio, Tito un libidinoso, Domiziano un pazzo da legare con un collare di ferro, Adriano assorto in riflessioni senza capo né coda. Nella descrizione di Giuliano solo Alessandro Magno, ospite d'onore, e Marco Aurelio, il cesare filosofo, si salvavano dalle beffe con cui il satiro faceva ridere i vecchi dèi ridestati dal loro sonno. Ma non era nulla rispetto agli imperatori che dovevano ancora venire. Nulla, in particolare, rispetto a Costantino. Il primo imperatore cristiano è ammesso solo come uditore, per indegnità, ma aspetta baldanzosamente il suo turno. Ipnotizzato dalla dea Lussuria, vanta distrattamente le sue vittorie. Sono state provvisorie come i giardini di Adone, ribatte Sileno. Quando Ermes gli chiede che cosa si proponesse, Costantino confessa: «Possedere un mucchio di soldi, per spendere molto e soddisfare i miei desideri e quelli dei miei amici». Sileno scoppia a ridere: «Volevi fare il banchiere e non ti sei accorto di avere fatto una vita da cuoco e da pettinatrice». Risate. Il gioco è finito. Ora ciascuno deve scegliersi un dio. E' l'ultimo quadro della rappresentazione del Simposio di Giuliano l'Apostata. Il trasformista Costantino non trova un modello di vita abbastanza flessibile tra gli dèi dell'Olimpo. Sono tutti, come direbbero gli anglosassoni, un tantino troppo square: la coerenza al proprio carattere è imperativa nella definizione della divinità pagana come nel comportamento dei suoi fedeli. Così, il fondatore di Costantinopoli butta le braccia al collo a Lussuria, che lo traveste da donna e lo porta a Perdizione. Lì i due incontrano Gesù Cristo, sempre disponibile al perdono, che grida come un imbonitore: «Chi ha corrotto, chi ha ucciso, chi è stato maledetto e respinto da tutti, venga qui, venga fiducioso! Lavandolo con quest'acqua, lo purificherò in un attimo! E anche se ricade nelle stesse colpe, qualche preghiera e gli concederò di ritornare puro!». Un riso incontenibile, un asbestos gelos, si alza dall'uditorio. L'ultimo riso degli dèi.