Silvia Ronchey

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Noi e gli antichi

Aby Warburg e la metamorfosi degli antichi dei

"Aby Warburg e la metamorfosi degli antichi dei" a cura di Marco Bertozzi

08/04/2003 Silvia Ronchey

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Il Foglio Quotidiano

Poche brevi parole prima di andare a co­lazione a Frascati. Ieri pomeriggio ho parlato per tre quarti d’ora ed è stato un ve­ro trionfo; sono riuscito persino ad attirare l'attenzione dei presenti che non parlavano tedesco. Al banchetto che si è tenuto dopo, l’atmosfera era davvero eccellente. Posso dire senza esagerazione che ho vinto su tut­ta la linea. E confesso che gli enormi sforzi compiuti non mi sembrano più fatiche pa­tite inutilmente, visto che mi sono valse la sincera amicizia di Venturi, Hermann, Papini, Orbaan e molti altri". Così Aby Warburg scriveva alla moglie Mary il 20 ottobre 1912, da Roma, subito dopo avere letto al Decimo Congresso Internazionale di Storia dell'Arte la sua memorabile conferenza sul significato astrologico degli affreschi di Pa­lazzo Schifanoia a Ferrara. I tre quarti d’o­ra della “Italienische Kunst und internationale Astrologie im Palazzo Schifanoja zu Ferrara" avrebbero segnato una svolta sen­za ritorno nella storia della disciplina: l’at­to di fondazione dell’iconologia.
Analizzando immagini, simboli, enigmi del Salone dei Mesi, Warburg aveva sapu­to individuare il senso della sopravviven­za del paganesimo antico e bizantino al­l’interno della cultura del primo Rinasci­mento. Le fantasmagoriche metamorfosi degli dèi pagani e le formidabili deduzio­ni del loro indagatore avrebbero fornito alle successive generazioni di studiosi, da Gombrich a Settis, una prospettiva intera­mente nuova e uno straordinario metodo di ricerca. Per analizzare l’una e l’altro nelle sue articolazioni, Marco Bertozzi, il più noto studioso italiano di quegli affre­schi, riunisce in questo volume i contribu­ti di specialisti warburghiani di ogni lati­tudine. Ne emerge un bel ritratto del fon­datore dell'iconologia e del suo pensiero.
Warburg era anzitutto, un pensatore. In lui il Daimon si era manifestato preco­cemente. Forse nessuno, fra gli intellet­tuali del Novecento, fu così lucidamente consapevole di doverlo seguire, malgrado tutto. Warburg era nato da un'opulenta famiglia di banchieri. Avrebbe dovuto prendere le redini dell'impresa patema, ma il demone dello studio e dell’arte gli fece lasciare al fratello minore Maximilian, contro la volontà dei genitori, la guida dei capitali. A Maximilian chiese solo, in cambio, di essere rifornito di tutti i li­bri di cui avrebbe avuto bisogno. Con Proust, di pochi anni più giovane, War­burg condivideva l’intuizione che, come scrisse in seguito, il buon Dio si potesse nascondere nei particolari, nelle minuzie apparentemente insignificanti. Per deco­dificarle, per farle parlare, era indispensabile una profonda sapienza filologica, storica, filosofica, mitologica, storico-reli­giosa. Ed era decisiva la certezza, che Warburg derivava dal pensiero del suo tempo, che solo travalicando i margini delle discipline si potesse approdare a una ricerca degna di tale nome. “Gli stu­di sulle religioni dell’antichità greco-ro­mana ci insegnano sempre più a guarda­re l’antichità quasi simboleggiata in un’erma bifronte di Apollo e Dioniso. L’ethos apollineo germoglia insieme con il pathos dionisiaco quasi come un dupli­ce ramo di un medesimo tronco radicato nelle misteriose profondità della terra madre greca". Come non riconoscere l’immediato antesignano della colta, eversiva interdisciplinarietà di Warburg nel grande Nietzsche, non a caso perse­guitato da Wilamovvitz?
Il piatto di lenticchie per il quale War­burg cedette la sua primogenitura è oggi la più straordinaria e appetibile biblio­teca del mondo: la Library del Warburg Institute di Londra, in cui tutte le disci­pline che gli antichi praticavano nella paideia del Trivio e del Quadrivio si fon­dono con la storia dell’arte e svelano i suoi infiniti, iniziatici misteri.


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