Rendiamo grazie al copista: è lui l'artefice dei testi antichi
"Il copista come autore" di Luciano Canfora
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Chi è l'autore di un testo antico? Colui che l'ha scritto, certo. Dunque, perché non lo scriba? A ben vedere, come paradossalmente sostiene Luciano Canfora nel suo ultimo libro, Il copista come autore, è il copista il vero artefice di ogni testo sopravvissuto. Le parole che lo compongono sono passate attraverso il vaglio della sua mente e lui se ne è appropriato e vi ha inserito se stesso, i suoi tempi e le sue letture, le sue emozioni e i suoi lapsus - censure, aggiunte, slittamenti conscio inconsci. Nell'antichità i libri, in continua, magmatica metamorfosi, «spandevano varianti». La storia del destino dei testi non è lineare come potrebbe far credere lo stemma codicum, ricostruzione genealogico-congetturale basata sull'analisi degli errori dei manoscritti superstiti, o testimoni. Lo stesso archetipo non è che un esemplare qualunque, alle cui spalle, per secoli, c'è stata una mescolanza incessante. «Un abisso tempestosissimo - scrive Canfora lo separa dall'originale», o dagli originali. «Modesto surrogato», l'archetipo non è più di una scheggia nell'incessante processo vulcanico che i filologi chiamano storia della tradizione. Prolegomeni a ogni futura critica del testo potrebbe intitolarsi questo libro, cui l'intensa bellezza letteraria non impedisce di essere un vero e proprio trattato - potremmo dire - di filosofia della filologia. Se da Paul Maas, come scriveva Giorgio Pasquali, la critica testuale fu «more geometrico demonstrata», la visione di Canfora, che tira le somme di cento anni di studi, è antigeometrica, non euclidea. Se il metodo filologico, almeno a partire dall'Ottocento di Lachmann, è stato visto come scienza, la filologia di Canfora può accostarsi forse alla moderna teoria del caos. «La tradizione - scrive Canfora - è essenzialmente o traduzione o copia. L'una e l'altra, in maniera complementare, intervengono nella constitutio textus, ma il loro significato supera di gran lunga il fine dell'edizione: esse sono la storia, sono le azioni costitutive della storia della civiltà». Chi è l'autore del testo, dunque, se non la storia? Terenzio che traduce Menandro, Lucrezio che interpreta Epicuro, l'attore che recitando colora la trama recitata, il bizantino che citando influenza il testo citato, apparenti molecole di un caos, sono in realtà mossi da un'unica necessità identificabile: non quella della stemmatica, della discendenza verticale, ma quella della storia e dei condizionamenti che il suo divenire imprime sui singoli recettori, sollecitatori, promotori, epitomatori, escertatori - «autori», tutti - del testo. Che cos'è allora un testo, potremmo chiederci, se non a sua volta il testimone di chi e di ciò che lo ha testimoniato? Come il tronco dell'albero porta impressa nei suoi segni circolari la millenaria vicenda naturale in cui l'albero era inscritto, così, nelle pagine dei codici, nell'ondulazione delle grafie, è impressa in cifra la vicenda culturale che il testo ha attraversato e che vi si è incisa con la precisione che poteva conferire non la casuale finalità dei singoli, ma la necessità di quella che Braudel ha chiamato «storia immobile»: lo spostarsi impercettibile, invisibile alle singole generazioni, della direzione del mondo.