Chi fa la guerra non sa comunicare
"Retorica della guerra" di Sergio Valzania
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E' compito dei governanti, riteneva Guicciardini, fuggire le guerre quanto si può, «ma appartiene anche alla sapienza loro anticipare una guerra molesta e pericolosa per fuggirne una più molesta e più pericolosa». Sul concetto di guerra preventiva era d'accordo anche Machiavelli, che nel Principe sottolineava come la forza degli antichi romani stesse proprio nella capacità di fare la guerra in anticipo, «vedendo discosto gli inconvenienti», perché sapevano «che la guerra non si leva ma si differisce a vantaggio di altri». Che gli antichi imperi fossero votati alle operazioni militari più spregiudicate è del resto ben noto. «Un impero fondato con la guerra, con la guerra deve mantenersi», diceva Montesquieu dell'impero romano. E Tucidide, nel dialogo dei Melii, ha mostra quanto l'imperialismo ateniese fosse capace di spietata autoanalisi. Oggi ci interroghiamo sulla cosiddetta «guerra preventiva» che viene proposta contro l'Iraq, nonostante l'apparente remissività del suo governo e le perplessità dell'Europa e dell'Onu. Presumendo che l'Iraq abbia un arsenale di armi di distruzione di massa, si può obiettare che non è il solo. Presumendo che l'Iraq sia uno stato canaglia, poiché protegge e finanzia il terrorismo islamico, si può obiettare che la guerra portata all'Afghanistan non è certo finita. Un'ipotesi fra le più attendibili è che gli Stati Uniti vogliano assicurarsi il petrolio iracheno prima che lo stato saudita, attuale loro fornitore, sia a sua volta attaccato in quanto vero covo dei terroristi. In Retorica della guerra (Salerno Editore), Sergio Valzania, direttore dei programmi radiofonici Rai, sostiene che la guerra è per sua natura un evento antieconomico, un gioco a somma negativa. Qualunque accordo ripartitorio delle risorse materiali e culturali che nel conflitto vanno distrutte risulterebbe complessivamente favorevole ai contendenti. Almeno in via teorica, sarebbe sempre possibile ipotizzare una soluzione più generosa nei confronti dei due rivali che non quella conflittuale. Secondo Walter Benjamin, «la guerra imperialistica è una ribellione della tecnica. Invece di incanalare fiumi, devia la fiumana umana nel letto delle trincee, invece di utilizzare aeroplani per spargere sementi, li usa per seminare bombe incendiarie sopra le città». È una riflessione che conferma il punto di vista di Valzania. Nel suo libro, il conflitto odierno tra Occidente e Islam è affrontato come un problema di linguaggio. Partendo dall'antichità, dove lo stato di guerra era già insito nell’ «incomunicabilità» tra greci e barbari teorizzata da Erodoto, e passando per il «dialogo inespresso» tra le parti in lotta nelle guerre del medioevo, Valzania arriva alle Twin Towers e all'attuale incombente conflitto contro Saddam Hussein. Se la guerra è anzitutto il tentativo di costringere l'avversario ad accettare la visione della realtà che si propone, lo stato di guerra è già insito nella divaricazione culturale fra i contendenti e cioè nella loro percezione antitetica dei fatti, sullo sfondo della moltiplicazione esponenziale dei messaggi nel mondo dei media. Aveva forse ragione Anthony Burgess, quando sosteneva che «la guerra è il sistema più spiccio per trasmettere una cultura»?