Lesbia e Catullo, di baci straziami
Una serie di ritratti di celebri coppie tra letteratura, cinema e cronaca. S'inizia con i più appassionati innamorati dell'antica Roma
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Che lei a un certo punto avesse perfino avvelenato il marito, il nobilissimo Quinto Cecilio Metello Celere, era opinione comune, probabilmente veridica. Ma che lo avesse ammazzato per lui, no, proprio no. Non per il cucciolo. Quella donna era in guerra con tutto il genere maschile: «Ea cum viro bellum gerit», avrebbe detto Cicerone, con disprezzo un po' tardivo. Così lo chiamavano, cucciolo. Catulus. Era nato troppo in provincia e da una famiglia troppo per bene e aveva letto troppi libri. Era un enfant prodige sarcastico e moralista, disilluso e ingenuo. Si era trovato più volte a conversare con Cesare, il futuro dittatore, di passaggio per la Cisalpina al tempo delle sue imprese galliche. La tavola della grande villa dei suoi guardava il Lago di Garda. In qualità di proconsole della Cisalpina, anche Metello Celere era stato ospite di quell'ottima famiglia, a Verona, con la giovane moglie. Anche quella volta a tavola c'era il figlio minore, l'intellettuale, il cucciolo, appunto. Aveva quasi diciott'anni, ma non li dimostrava. Era minuto, gracile, un po' ingobbito dallo studio. La moglie del proconsole lo aveva fissato a lungo con il suo sguardo insolente. Era bellissima. Aveva occhi neri, naso piccolo, bei piedi, mani dalle dita sottili. Appena compiuti i diciott'anni, il ragazzo arrivò a Roma come protegé di un amico dei suoi, un tipo influente. Si inserì negli ambienti colti, frequentò un bel po' di poeti tra cui uno geniale, Cinna, ma soprattutto Cornelio Nepote, che divenne una guida fidata. Una volta, per strada, rivide la moglie di Metello Celere. Lei scostò la tenda della lettiga. Gli occhi neri ebbero lo stesso sguardo di un anno prima. Sapeva come rovesciare le regole del gioco galante, quella donna. Disprezzava le norme del matrimonio, le piaceva scegliere gli uomini prima che loro osassero scegliere lei. Le bastò rivederlo per decidere di sedurlo. Così giovane, così provinciale, così studioso. Sarebbe stato divertente insegnargli tutto. La Roma in cui il ragazzo era piombato usciva appena dalle guerre civili. Imparò in un anno cose che altri non apprendono in dieci. Divenne celebre come poeta. Alla sua generazione la politica aveva tolto ogni speranza. La letteratura, per lui e per i suoi amici, era conversazione, maldicenza, oscenità. Cicerone li aveva bollati come poetae novi, una nouvelle vague di maledetti. Lui gli aveva risposto: «Ti ringrazia infinitamente il cucciolo, pessimo poeta, tanto lui pessimo poeta quanto tu ottimo trombone». Era innamorato e felice. Soldi non ne aveva molti, la sua borsa, diceva ridendo quando invitava gli amici a cena, era piena di ragnatele. Ma che importava. Erano giorni abbacinanti, radiosi. Lei lo mandava a chiamare e lui si precipitava. Lei gli diceva di amarlo: «Sono tua». Lui sapeva che non avrebbe amato mai più nessuna quanto lei. Mai la vita gli era apparsa così facile. «Viviamo facendo l'amore, alla faccia di chi ci vuole male». Facevano l'amore in tutti i modi, sperimentavano tutti i giochi. Lei gli mordeva le labbra. Gli chiedeva quanti baci sarebbero bastati a saziarlo. «Quanti sono i granelli di sabbia africana intorno a Cirene ricca di Silfio, tra il tempio infuocato di Giove e il santo sepolcro dell'antico Batto», rideva lui, prendendo in giro i pedanti poeti alessandrini che aveva divorato da ragazzo. «Quante sono le stelle nella notte silenziosa a guardare gli amori clandestini degli umani», rideva lei, prendendo in giro gli ingessati poeti latini. «Tanti sono i baci che darai al tuo cucciolo impazzito per saziarlo: un conto che i pettegoli non riusciranno a tenere, un numero su cui le fattucchiere non potranno fare cabale». Avevano creato un loro codice. Alludendo a un uccellino che lei teneva, com'era di moda, in gabbia, e che a volte lasciava svolazzare per la stanza, lui scherzava cosi su quell'altro, il suo: «Passero, sei la delizia della mia ragazza, con te lei gioca, ti accarezza in grembo, ti sfiora con la punta del dito eccitandoti così che tu le dia forti beccate». A volte lei si negava. Non rispondeva ai messaggi. Scompariva per settimane intere. Lui prima si compativa. Poi si rimproverava da solo. Non stare a commiserarti, comportati da vero uomo, sopporta, resisti. Non inseguirla se fugge. Addio, ragazza. Non mi vuoi più? Non ti cerco, non ti chiamo. E guarda che soffrirai, a non essere cercata. Tanto prima o poi l'avrebbe incontrata di nuovo. Infatti si ritrovarono. E per festeggiare la riconciliazione scrisse i versi: «Dammi mille baci, e poi cento, e poi altri mille, e altri cento, e ancora e ancora mille, e ancora cento. Poi, arrivati a molte migliaia, rimescoleremo il conto come al solito, per scaramanzia». Una volta, lui ebbe una piccola défaillance. «Ah, povero passero!», si mise a declamare. «Piangete Veneri, piangete Amorini! E' morto il passero della mia ragazza!». Lei rideva convulsamente. Lui continuò a improvvisare oscenità nello stile stucchevole degli alessandrini: «Era tutto miele! Saltellava qua e là, pigolava solo per lei! Ma adesso va per quell'andito senza luce da cui si dice non torni più nessuno». A lei erano venute le lacrime agli occhi dal gran ridere. «Passero infelice! Per causa tua la mia ragazza piange e i suoi begli occhi sono rossi e gonfi». Per un po' si persero di vista. Entrambi andavano a letto un po' con tutti. Con gli amici lui era ambidestro. Perfino Baudelaire lo chiamò poète brutal. Una volta sorprese un adolescente a deflorare una ragazza. In un lampo d'ispirazione lo infilzò all'istante. Poi si divertì a raccontarlo in versi e li spedì a un amico comune per fare sì che arrivassero fino a lei, sperando di stupirla. Lei la prese come una sfida. Già aveva una storia incestuosa col fratello. Cominciò a sedurre gli amici di lui, soprattutto i più dissipati e affettati. Li raggiungeva nelle osterie, si ubriacava con loro bevendo il Falerno più aspro. Una volta che era ubriaca fradicia e che c'era anche lui, in una taverna à la page, per provocarlo si spogliò completamente e si stese sul tavolo offrendo le natiche agli avventori. Lui si infuriò: «Solo voi credete di avercelo?», scrisse in giambi a quelli che se l'erano fatta a turno sotto i suoi occhi. «Non crederete forse che non sia capace di infilarvelo in bocca a tutti?». Poi cambiò tono, supplicò gli amici. Tutte, diceva, ma non lei. L'ho amata come non sarà mai amata nessuna, per lei ho affrontato così tante battaglie! Molti, come per esempio quei bastardi di Gellio, Rufo e Quinzio, se ne infischiarono, anzi, si divertirono a farlo ingelosire apposta. Alcuni decisero di consolarlo personalmente. Con i ragazzi, in fondo, era molto più rilassante. Ma lei era insostituibile. Sosteneva di essere fedele, nel fondo, solo a lei, e pretendeva altrettanto. Una volta, tormentato dalla gelosia, si mise a tradurre dal greco quella famosa poesia di Saffo: «Pari a un dio mi sembra, o più ancora, se è lecito dire, chi ti siede di fronte e ti guarda e ti ascolta ridere dolcemente. E io, infelice, smarrisco ogni senso...». Si bloccò. Che diavolo stava facendo? Perdere tempo a tradurre Saffo, neanche fosse, come lei, una femmina invertita... Aggiunse, in calce: «L'ozio, cucciolo, ti fa male. Nell'ozio dai di fuori, diventi ossessivo. L'ozio ha già rovinato re e città intere». Avrebbe dovuto fare qualcosa, distrarsi. E se fosse partito per l'Asia? Le spedì un biglietto: «Dicevi di conoscere solo me e di non preferirmi neanche Giove. A quel tempo ti amavo non tanto come si ama un'amante, ma come un padre ama i figli. Adesso ti ho capito. E se brucio molto più di allora, ti giudico anche molto più volgare e più leggera. Perché mai? mi chiedi. Perché un'offesa così costringe l'amante ad amare di più, ma a voler bene di meno». La sua mente aveva deragliato, per colpa di lei, in un tale delirio, lui si era logorato nella sua fedeltà sino a una tale follia, che la odiava e la amava insieme. Ma com'è mai possibile, gli domandavano gli amici. Non lo so, rispondeva. So solo che nel profondo è così, e mi sento crocifisso. Stava male, proprio male, e l'angoscia si faceva più grande a ogni giorno, a ogni istante. E neanche uno dei suoi amanti che andasse a consolarlo. Anche quel pallone gonfiato di Cicerone era caduto fra le braccia di lei. E aveva sofferto, anche lui, si era disperato, aveva pianto. Ma poi aveva reagito nel suo modo paludato e tronfio: è una puttana, aveva detto. E per far risuonare questa solenne rivelazione in tutta Roma l'aveva inserita in un discorso pubblico in cui non c'entrava proprio nulla. Era stata una vendetta meschina. Ora, lei aveva un cuore nero. Era una Scilla con gli inguini che latrano, una peste, una morte per l'anima. Ma non avrebbe mai potuto dire male di lei. Sarebbe stato come insultare la sua stessa vita, perché lei gli era più necessaria di tutt'e due gli occhi, perché la amava più di se stesso. E invece quel trombone di Marco Tullio, il più eloquente dei romani, l'aveva, letteralmente, sputtanata, con un insopportabile tono da arringa avvocatesca. Tutto si poteva dire di lei, ma non che fosse una puttana. Le puttane lo fanno per soldi. Lei era ricchissima e nobilissima, apparteneva alla gens Claudia, suo padre era il console Appio Claudio Pillerò. Lesbia, il cui vero nome era dunque Claudia, o Clodia, o Claudilla, era seconda sorella di quello snob che aveva plebeizzato il loro nome contraendo «Claudio» in un «Clodio» più moderno e popolare, Publio Clodio, detto il Bello, era passato così dal patriziato alla plebe, divenendone tribuno. Anche lui ce l'aveva con Cicerone. Era riuscito a spedirlo in esilio, nel 58. Forse anche in odio a lui Cicerone aveva detto quello che aveva detto, in quell'ignobile discorso, della sorella-amante. E per gelosia. La gelosia che tutti gli innamorati di lei avevano per quel fratello che nessuno riusciva a scacciare né dal suo cuore né dal suo letto. Anche il cucciolo, il catulus, se l'era presa col Bello, ma molto più elegantemente, alla sua maniera ironica. Lo chiamò Lesbio. «Lesbio è proprio carino: perché no? Lesbia lo preferisce a te, Catullo, con tutti i suoi parenti. Che questo Bello venda Catullo e la sua gente, se rimedia anche solo tre baci dagli amici». Ormai, secondo la sua delirante gelosia, lei si faceva persino pagare, la si incontrava agli incroci e nei vicoli bui a masturbare tutta la discendenza di Remo con l'abilità consumata di chi sbuccia le spighe di frumento. Che se ne stesse coi suoi ganzi e se ne godesse anche trecento alla volta, senza amare davvero nessuno, sfiancandoli però tutti! Che lasciasse in pace il suo povero passero, che l'aveva soddisfatta così bene un tempo, e che ora, per colpa sua, era afflosciato e vizzo come un fiore ai bordi di un prato, che l'aratro ha reciso al suo passaggio. La prima volta che aveva letto le poesie d'amore di Catullo, Cicerone aveva detto: «Questo Catullo è il solo uomo a Roma a prendere sul serio la passione. Probabilmente sarà l'ultimo». Ma forse non era così. Forse Lesbia non era mai esistita, forse era tutta un'invenzione beffarda, così come il personaggio, che Catullo si era divertito a descrivere così bene, dell'amante sofferente e deluso. Forse Catullo aveva voluto, come avrebbe fatto Lucrezio, prendere in giro un cliché. Non fosse morto trentenne, Catullo sarebbe forse finito, come Rimbaud in Abissinia, nell'infuocata e amata Bitinia. Ma forse anche quella della morte precoce è una leggenda letteraria. Per esempio Scaligero sostenne che Catullo morì a sessant'anni. Anche se i suoi argomenti furono confutati da Bayle.