Il libro nero di Cesare
Democrazia, partitocrazia e pulizia etnica
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La paralisi del parlamentarismo, il degradarsi di ogni politica popolare in settarismo e demagogia, mentre il costume clientelare corrompe le plebi e si esita a stabilire quale «popolo» i populares rappresentino più: le difficoltà eterne della democrazia formano lo scenario della tarda repubblica romana, in cui viene iniziato alla politica Giulio Cesare, protagonista della monografia di Luciano Canfora appena uscita da Laterza con il provocatorio sottotitolo Il dittatore democratico. Ma questo non è, in qualche modo, anche lo scenario della nostra seconda repubblica? Se si prova a sostituire ai populares i postcomunisti, alle lotte di consoli, tribuni e senatori gli infiniti dibattiti della partitocrazia, probabilmente non si tradisce il pensiero dell'autore, uno storico che da sempre declina al presente l'analisi del passato. Alla metà del I secolo a. C. il ceto sociale alla base del partito popolare andava deteriorandosi col crescere delle sacche di parassitismo. Per Canfora, Giulio Cesare è l'interprete dell'insoddisfazione di un'intera generazione di democratici: insieme al gioco degli schieramenti, contesta il sistema stesso della tarda repubblica. Capisce il mutamento, intuisce i nuovi soggetti. Soprattutto, ha la spregiudicatezza di cercare l'accordo con l'antagonista: il «tavolo» del triumvirato. La mancanza di un'opposizione basta a far parlare di «regime»? Pur nella corruzione del sistema, perdurano, nella sostanza, le libertà repubblicane. Beninteso, finché non si arriva alla dittatura. Ma, allora, il capopartito viene ucciso. La rivoluzione diviene, nominalmente almeno, restaurazione della respublica; e nasce, questa volta davvero, la monarchia assoluta. Le indagini di Canfora portano a una precisa teoria della congiura e alla conclusione che l'uomo di Stato autore nella Roma di due millenni fa del tentativo di liquidare la prepotenza dei partiti fu vittima del suo partito stesso. Ora, se la storia sia sempre, in qualche modo, storia del presente, il legame coi fatti remoti sta nella loro trasformazione in miti, continuamente operanti nella dialettica politica. La liquidazione del capo a opera del suo partito è divenuta, cosi come il cesarismo, un modello, una costante, se vogliamo una maledizione perdurante fino a oggi, fino al mito intorno alla morte di Stalin a Kuntsevo. Su tutto campeggia tragicamente il cadavere di Cesare, simbolo del fallimento di ogni utopia politica in cui un potere interclassista voglia trascendere le fazioni di un sistema politico paralizzato dal conflitto. Solo in questo senso può andare a Cesare la simpatia dell'autore. «Siamo diventati troppo umani per non dover sentire ripugnanza ai trionfi di Cesare», aveva già scritto Goethe, e la frase, oggi di cupa attualità, è citata in testa al capitolo allusivamente intitolato «Il libro nero della campagna gallica», che esamina, confrontando le fonti, l'entità del massacro: almeno un milione di morti, se si includono le perdite causate dalla guerra civile. Cesare realizzò con la violenza e lo sterminio etnico il suo duplice e infinitamente discutibile contributo alla storia dell'umanità: la romanizzazione dell'Europa celtica; la nascita, dopo quattro anni di lotta fratricida innescata dal passaggio del Rubicone, della monarchia universale.