Così Penelope tesse la tela del romanzo
Penelope Fitzgerald. Oxfordiana, vincitrice del Booker prize, nota ovunque tranne che in Italia. Ora ci arriva il suo libro più recente. Nel nome del grande Novalis.
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Meno di un anno fa, quando Penelope Fitzgerald vinse negli Stati Uniti il National book critics circle award, i giornali italiani la presentarono come un'oscura Cenerentola che trionfa a sorpresa su colleghi illustri. Solo qualcuno cercò di far notare che la scrittrice, ottantunenne, risultava oscura solo in Italia, non essendo mai stata tradotta a causa, sembra, di un'opzione della casa editrice Adelphi mai esercitata; che invece nel resto del mondo era nota e venerata come una grande voce della narrativa anglosassone; e che aveva vinto più di un premio letterario, incluso il Booker prize.
Penelope Fitzgerald proviene dal più eccentrico establishment intellettuale britannico. Oxfordiana, anglista, storica dell'arte, giornalista televisiva, insegnante teatrale e solo tardivamente «scrittrice per scrittori», è crede dei fratelli Knox, figlia cioè di E.G.V. Knox, lo storico direttore del Punch, e nipote di Ronald, il maestro di Evelyn Waugh. I suoi brevi romanzi, che definisce «microchip novels», sono pieni di cultura e però anche di ironia, buoni per le vendite e però anche per i critici.
Uno di loro, Auberon Waugh, recensore di rinomata ferocia, ha dichiarato «di essersi sorpreso per la prima volta nella sua carriera a pregare una donna di scrivere non di meno, ma di più»: come ricorda Masolino D’Amico nella postfazione a II fiore azzurro, l'ultimo romanzo di Penelope e il primo finalmente tradotto in Italia, per Sellerio.
Questo romanzo, in effetti, è un piccolo gioiello. Il fiore azzurro racconta la vita del giovane Friedrich von Hardenberg, il futuro Novalis, il geniale poeta romantico dell’Inno alla notte: per i lettori, semplicemente «Fritz». Intorno a lui ci sono i paesaggi della Germania provinciale dell'ultimo 700, la tribù patriarcale di figli, servi, parenti e clienti, i riti domestici come l’immenso bucato annuale, che accoglie all'inizio del romanzo il protagonista e il lettore.
C’è, naturalmente, la filosofia tedesca protoromantica: i fratelli Schlegel con le loro mogli, Schiller e Goethe, la critica kantiana, lo Sturm und Drang, l’elettromagnetismo, la fisiognomica. I colleghi dell'università di Jena aspettano Novalis impazienti: «Che dite, riparlerà dell’Assoluto?», mentre Karoline e l'amata dodicenne Sophie considerano i suoi versi «il tipo di cose che stampano sulle carte dei dolci».
L'apologo del romanzo è metafisico, ma avvolto in una caligine, in una stramberia e in una confusione che sembrano quelle della campagna anglosassone. E però il trompe-l'oeil è deliberato, con l'autoironia di quelle regie teatrali in cui i personaggi anziché i loro costumi indossano panni uguali a quelli degli spettatori e del regista. «Qualunque cosa leggerete di Hardenberg, non lo capirete bene come se ci prenderete una volta il tè» scandisce Friedrich Schlegel, quasi fossimo a Oxford.