“Io, scettico grecista, credente e comunista”
Intervista a Jean-Pierre Vernant di Silvia Ronchey
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INTERVISTA A JEAN-PIERRE VERNANT di Silvia Ronchey
D. Professor Vernant, che cosa ha contato di più nella sua vita?
R. La ricerca e la politica. Mi accorgo oggi dell'intima unione tra il lavoro di ricerca, i miei oggetti di studio, e, dall'altra parte, la militanza comunista. E' stato così fin dall'inizio, dal mio arrivo al Quartiere Latino. Avevo diciott'anni. Preparavo la laurea in filosofia e intanto attorno a me spadroneggiavano le Leghe, la versione francese del fascismo. In quel clima l'impegno intellettuale e quello politico non potevano distinguersi, si saldavano in un unico blocco.
D. E in seguito, nella sua vita, non vi è stato conflitto tra i due?
R. In seguito moltissimo, e oggi lo constato con obiettività, come se si trattasse dell'esistenza di un altro. Al termine di quest'esistenza, dall'alto dei miei anni, rifletto e m'interrogo sulle contraddizioni fra quelle due identità: sui loro conflitti, o perlomeno — visto che le vivevo entrambe — sulle loro tensioni interne. Come ho potuto, essendo uno storico, ed esercitando quindi nella ricerca sul passato il mio spirito critico, avere verso il futuro e sul piano politico l'atteggiamento di un “credente”?
D. “Credente” in che cosa?
R. Che l'avvenire fosse segnato, quasi provvidenzialmente, e che bastasse a prepararlo l'azione condotta da me e dai miei compagni nel mondo intero. Che fosse prossima la soluzione dei grandi problemi dell'umanità: sociali, economici, politici, razziali. E che questa mia fosse una visione scientifica, positiva e ragionevole. Oggi so bene quante zone d'ombra ci fossero, i problemi che obliteravo perché mi disturbavano e mi irritavano. Non volevo vederli. Questo è l'atteggiamento dei credenti, appartiene al mondo della religione: non porre un certo numero di problemi appunto perché non li si può risolvere, o perché la soluzione che ne deriva abbatterebbe un certo numero di dogmi ai quali si tiene molto.
D. Ma nei suoi scritti sul mondo antico lei ha sempre avuto, rispetto al marxismo, uno spirito fortemente critico.
R. Sì, nel mio lavoro, che in una certa misura si è ispirato al marxismo, credo di avere mostrato una libertà di pensiero totalmente contraria al marxismo rigido, fisso come una bibbia. Il metodo marxista in alcuni casi poteva servirmi, ma ce n'erano altri in cui non funzionava affatto. E allora lo abbandonavo, cercavo qualcos'altro.
D. In effetti lei ha creato un metodo d'indagine nuovo, liberatorio per chi voleva studiare il passato, specie negli anni 70, quando lo studio del passato era più o meno esplicitamente considerato reazionario dall'ortodossia marxista.
R. Mancava una ricetta e io l'ho trovata. Pierre Vidal-Nacquet e gli altri miei collaboratori non hanno mai smesso di dirmi che sono sempre stato “un comunista critico”. A pensarci oggi, credo sia la verità. Ho sempre saputo che le cose sono contraddittorie, complicate, che nessuna soluzione può essere trovata a priori e che ogni soluzione unilaterale è necessariamente falsa. Se non altro per il fatto che ogni affermazione contiene sempre, in qualche modo, un legame con l'affermazione contraria.
D. Del resto, nel PCF, lei apparteneva al gruppo che la direzione del Partito chiamava le “termiti”.
R. Certo. C'è stato un periodo in cui non solo ero un comunista intellettualmente critico, ma un comunista organizzativamente critico. Ero una delle cosiddette “termiti”. Si può dire che dal '55 in poi la maggior parte della mia attività politica sia consistita nel lottare contro la direzione del mio partito.
D. Nel capitolo del suo libro intitolato “Il buco nero del comunismo”, in cui parla della sua lunga opposizione interna al Partito, lei confessa di avere ripetuto spesso, in quegli anni, che “restava dentro solo per guastargli la festa”.
R. Come no! E anche prima, da studente comunista, a Parigi, negli anni '32-'34, ero partigiano dell'unità d'azione con i socialisti, quando invece il Partito aveva una politica assolutamente settaria. Secondo loro il nemico principale erano i socialisti, non i fascisti che ti spaccavano la testa, non Mussolini in Italia, non la Germania che diventava hitleriana e poi Franco. Il mio disaccordo è stato ancora più completo al momento del patto russo-tedesco, quando il Partito Comunista Francese riteneva si dovesse firmare la resa perché quella in corso era una guerra tra imperialisti, di cui gli Inglesi erano responsabili. Invece io, in quei giorni, incollavo manifesti con su scritto: “Viva l'Inghilterra perché viva la Francia”.
D. Allora l'atteggiamento critico in lei non era presente solo nella ricerca intellettuale sul passato, come ha affermato prima, ma anche nelle scelte di militante.
R. E' vero, in quei momenti di lotta il mio spirito critico era presente. Dunque, può forse esistere anche all'interno di una fede politica totalizzante un ventaglio molto variegato, uno spirito critico. E, all'inverso, può esistere anche nello spirito critico dello studioso razionalista una specie di fede del tutto semplicista nei poteri sovrani della ragione. Le distinzioni non sono così nette. Nel mio titolo Tra mito e politica la parola più importante è “tra”. Sono importanti le mediazioni, i passaggi, gli interstizi attraverso cui il pensiero s'insinua tra realtà opposte e contrarie, fra cui possono verificarsi slittamenti di ogni sorta. Il che ci riporta a una delle preoccupazioni principali del libro, che è allo stesso tempo una preoccupazione intellettuale e una preoccupazione politica, nel senso nobile del termine.
D. Si riferisce al concetto di opposizione?
R. Il fatto è che tra il sé e l'altro che si oppongono, tra il sé e il mondo che formano due realtà differenti — o che la cultura occidentale, almeno, contrappone — si trova, a partire da Descartes, il soggetto umano, che è un soggetto spirituale. E' il cogito ed è, inoltre, tutto il resto, è l'animale-macchina, è materia, estensione e movimento. Ma in realtà ciò che si scorge, anche lì, è l'altro. Già, perché una parte del sé appartiene al mondo e una parte del mondo appartiene al sé. Con l'altro, il problema del “che cosa sono” è un problema che ha senso solo nella misura in cui, nello stesso tempo, gli altri sono una parte di me, in quanto io non posso conoscermi né pensarmi se non attraverso qualcos'altro, e cioè se non attraverso la mia esperienza dell'altro. Con gli anni sono diventato, in un certo modo, eracliteo. E' la tensione degli opposti che fa esistere e vivere il mondo.
D. E dunque anche quello che nei suoi studi sulla tragedia lei definisce “ambiguità”?
R. Sì, dunque anche l'ambiguità.
D. Ma allora non potremmo applicare quest'ipotesi anche al rapporto fra il lavoro intellettuale e l'impegno nella realtà, che prima lei poneva come contraddittori? In fondo, approdano alla stessa cosa: la critica.
R. Sì, su questo punto ha ragione: in fondo, si tratta della stessa cosa. Quando rifletto mi dico: come ho fatto a non vedere la mia doppiezza? Senza l'ambiguità non si può spiegare la tragedia greca, né la scultura greca, né la religione greca, né la filosofia, la medicina, l'astronomia. E così anch'io sono bifronte. Mi dico: ci sono due Vernant, c'è il Vernant che lavora sui testi antichi e il Vernant militante, che lotta contro questo o contro quello. Ma poi, oggi, mi accorgo che i due sono uno, e percepisco proprio nella loro tensione, credo, la sua essenza. E' qualcosa che sto formulando adesso a lei, che non ho formulato in questo libro né in altri e che formulo appena a me stesso. Lei ha parlato di “critica”. E' un aspetto, e quest'aspetto è una scommessa pascaliana, se così posso dire, ma una scommessa sull'uomo e non su Dio.
D. Qual è la sua scommessa sull'uomo, o sulla vita?
R. Io non riesco a disperare né dell'uomo, né della vita. Sono un vecchio che si è ritrovato solo e si domanda: che senso ha l'esistenza? Usando lo spirito critico, si potrebbe dire che non ne ha nessuno. E perché le cose stanno così? In teoria, potrebbero essere differenti. E cosa ci fa uno al mondo? Mah. Gli uomini vanno e vengono. Quelli che ami spariscono. L'umanità, nel corso della sua storia, è arrivata a dare alla nozione di individuo umano, nella sua unicità, un valore fondamentale. Ma la morte è la negazione di questo valore. La morte assume interamente il suo senso a partire dal momento in cui gli esseri sono insostituibili. E' per questo che la morte è qualcosa di mostruoso, di terrificante. Se siamo insostituibili come crediamo e come affermiamo, se non ci sono due gocce d'acqua simili, né due esseri umani identici, beh, se ce n'è uno che sparisce è come se il mondo crollasse insieme a lui.
D. E' questa la sua visione del mondo?
R. Questa è la mia visione critica, disillusa e smitizzata del mondo. Ma nello stesso tempo è vero anche il contrario. Se non ci fosse la morte, se non ci fosse questa linea d'orizzonte dove alla fine tutto sparisce, la vita non avrebbe alcun senso. Ciò che dà valore alla vita è precisamente la morte. Se fossimo eterni come il buon Dio, tutto sarebbe perpetuamente ed egualmente noioso, niente emergerebbe o avrebbe luogo, nessuna forma di individualità. Questa sì che sarebbe la morte. Se si parte da una visione disincantata del mondo, condivisa da coloro che non credono o non credono più che il senso di tutto questo sia altrove, in un luogo assoluto, dove tutto è stato previsto e dove alla fine dei tempi i buoni saranno da una parte e i cattivi dall'altra, se non si pensa più questo, si comincia a pensare il mondo. E bisogna dire allora che non ha alcun senso.
D. Come sostiene Lévi-Strauss?
R. Come direbbe Lévi-Strauss, l'unica spinta ad agire sta nel fatto che niente è scritto in anticipo e che tutto è possibile. La storia non è stata ancora scritta ed è per questo che gli uomini nel farla sbagliano, compiono azioni che hanno un effetto completamente diverso da quello previsto. E' per questo che la vita è una tragedia ed è proprio per questo che viverla vale la pena. Se qualcosa esiste, è nella tensione con l'assoluto indistinto che quel qualcosa ha di fronte, con la Gorgone del mito greco. Perciò esiste un mondo di valori appunto a causa della morte. Senza la morte non c'è valore. E' la morte a far comprendere tutt'a un tratto un fiore o un essere che si ama nella sua unicità e fragilità. Se non avessero questa fragilità sarebbero indistruttibili e perciò privi di valore.
D. La sua è in fondo un'elaborazione del pensiero greco. Che cosa l'ha spinta a studiare l'antica Grecia?
R. Una specie d'incantamento provato da ragazzo, quando sono andato per la prima volta nel sud della Francia, in Provenza, con mio fratello e i miei cugini, che erano tutti grandi, io ero il più giovane. Eravamo diretti a Juan-les-Pins — che era all'epoca un piccolo porto immerso nella natura, niente di simile a ciò che è diventato adesso — e si era nel '28, o nel '30. Con le automobili di allora non si poteva fare il viaggio in un giorno solo, per cui ci eravamo fermati a dormire nella locanda di un piccolo villaggio delle Alpi Provenzali. Verso le sette del mattino mi ha svegliato un suono di campanelli. Ho aperto le persiane: un gregge di montoni con il pastore attraversava il villaggio. Ma che cosa avrò visto veramente? I montoni, il pastore, e poi il cielo, il suo colore, la sua luminosità, ho visto i tetti di tegole romane, e mi sono detto: mio dio, cos'è questo? E' l'incantamento, è la felicità.
D. E dopo quest'iniziazione?
R. In seguito, nel '35, ho navigato sul ponte del Cairos City, un cargo che usavano anche Sartre e Simone de Beauvoir. Non costava quasi nulla, ma non preparavano da mangiare, avevamo casse di pomodori e pane. Qui, sul Mediterraneo, ho provato di nuovo quella specie di felicità. Siamo sbarcati al Pireo. All'epoca non c'erano in pratica turisti. Si viaggiava a piedi. Abbiamo percorso la Grecia su viottoli sterrati, da Atene a Delfi, e poi nel Peloponneso. Appena ci vedevano arrampicarci su per le mulattiere gli abitanti dei villaggi scoscesi suonavano le campane. Quando arrivavamo in piazza, nel caffè, tutti erano riuniti e si accapigliavano per darci i loro letti. La venuta dello straniero la vedevano come un omaggio, un dono che li arricchiva, che alzava il loro prestigio e insieme mostrava che le loro case erano aperte all'esterno. Facevo il confronto con le minacce dei fascisti del Quartiere Latino: “A bas les métèques! Fuori lo straniero!”. Il passato mi presentava una forma di vita collettiva dove lo straniero veniva accolto a braccia aperte. Il contrasto era con la verità del presente. Occorreva invece cercare la verità precisamente lì, scrutando la storia di quegli uomini e come mai erano così.
D. Da dove ha cominciato?
R. Nel '37 dovevo prendere l'abilitazione in filosofia ed era necessaria una prova di greco. Quando ho letto Platone — Aristotele meno forse, ma quando ho letto i dialoghi di Platone, il Simposio, ho provato di nuovo quella felicità. Non era solo un maestro di filosofia né solo un trattato di filosofia: era conversazione, era teatro, era tutto quello che si può volere. Mi dicevo: ma che tipi intelligenti e maliziosi questi greci e come si può pensare di comprendere il mondo senza almeno andare a vedere quello che loro ne hanno pensato! Dopo l'abilitazione sono partito militare di leva e la ferma nell'esercito è stata molto lunga, dato lo stato di cose. Quando è arrivata la guerra sono rimasto nell'esercito. Sono stato smobilitato al momento della sconfitta. Ho fatto la Resistenza. Il che vuol dire che, pur avendo preso l'abilitazione nel '37, solo nel '46 ho avuto una cattedra di filosofia al Liceo Jacques Decourt e sono tornato alla ricerca solo nel '48. Il mio maestro Meyerson mi disse: “Niente storie, Jean-Pierre, la ricerca è come entrare in convento”. Ero di nuovo iscritto al Partito Comunista ed era il periodo buio, quello di Zdanov. I suoi scritti erano tutto il contrario di ciò che pensavo, che si trattasse di pittura, di poesia, di musica o di storia. Mi dicevo: questo è un imbecille, un idiota. Anche Meyerson era comunista, aveva aderito al Partito, ed era d'accordo con me: “Zdanov non vale niente, non esiste, passerà”. E' qui che sbagliavamo. Credevamo fosse una cosa passeggera, un “errore umano”, mentre era la verità del tempo, dello stalinismo, dell'Unione Sovietica e del comunismo. Era parte del sistema. Quando ero disorientato, Meyerson mi diceva: “E' successo e succederà ancora che lei, come me, non sia d'accordo con la linea politica del partito. Ma siamo su una nave, sappiamo dove vogliamo andare, c'è un capitano a fissare la direzione o a ordinare una manovra, e c'è un equipaggio, di cui facciamo parte”.
D. Lei si è definito, nell'opposizione al rigore del PCF, un comunista “italiano”. In Italia oggi l'alleanza politica tra comunisti e chiesa cattolica dà vita a quello che molti chiamano cattocomunismo. Avete o avete avuto qualcosa di simile in Francia?
R. L'unico esempio che mi viene in mente è quel tremendo Garaudy, una specie di cattocomunista, ma insieme anche musulmano, verde, femminista, un camaleonte. No, in Francia abbiamo altre tradizioni. Mio padre e mio nonno, intellettuali laici, dreyfusardi, partigiani della scuola pubblica e della separazione tra chiesa e stato, con il loro giornale repubblicano “Le Brillard” hanno combattuto contro “L'Abri”, giornale cattolico, monarchico e conservatore. La grande frattura era lì. Ora, è finita. La chiesa francese accetta il principio di ciò che si chiama laicismo, sa cioè che ha un ruolo enorme da svolgere, istituzionalmente, per trasmettere sotto forma di credenze la cultura cattolica, ma che campi interi della vita sociale, collettiva, non le appartengono più, inclusa la scuola. Tenga presente che la maggioranza in Francia è cattolica, ma in un modo privato, che non influenza le lotte politiche e sociali. La politica è veramente laica. Una combinazione come la vostra non potrebbe presentarsi.
D. In Italia l'avvicinamento al cattolicesimo sembra riguardare gli ex-marxisti, gli stessi che avevano considerato la religione “oppio dei popoli”. Come mai?
R. Vede, nel dopoguerra gli intellettuali in quanto tali considerarono l'impegno una necessità. E il marxismo e il comunismo erano l'orizzonte invalicabile del nostro secolo. A volte si accreditava pienamente l'Unione Sovietica, a volte si poteva anche prendere qualche distanza, ma così era allora, malgrado tutto. Ora, anche questo è finito. Ed evidentemente gli intellettuali non hanno più una poltrona dove collocare il didietro. Perché si riavvicinano ai cattolici? Perché, nella misura in cui non credono più nel marxismo, che cosa resta? Un bisogno di giustizia, un sentimento di fraternità. E in Occidente troviamo — qualche volta in antitesi, qualche volta in continuità con la civiltà greca — una concezione per cui, almeno in teoria, tutti gli uomini sono fratelli e a contare sono l'amore, la carità, l'apertura verso gli altri. Visto che gli intellettuali non hanno più in prospettiva un oggetto di lotta preciso, allora per forza di cose si lasciano cullare dolcemente, per cadere nelle braccia della più elementare tradizione cristiana. Di qui il ritorno a un certo conformismo.
D. James Hillman, il grande psicanalista, in un'intervista di pochi mesi fa ha detto che il comunismo è morto ma il marxismo è più che mai vivo “in quanto mito”: continuerà a penetrare la coscienza collettiva non più nella sua pars construens ma nella sua pars destruens, cioè nella sua critica alla società capitalista.
R. Credo che il marxismo sopravviva per me, e in questo abbia il suo unico lato mitico, nell'idea che abbia potuto esistere alla fine del XIX secolo un uomo che dall'interno di una società in pieno slancio ha saputo gettare uno sguardo critico, di analisi scientifica, di riflessione oggettiva su quello sviluppo. Ma ritengo — e non mi sento in questo molto originale — che Marx si sia sbagliato su una quantità di fatti. Ha creduto che la classe operaia stesse per moltiplicarsi. Non ha previsto che le classi medie avrebbero assunto un'importanza molto maggiore. Non ha previsto, né avrebbe mai potuto prevedere, che le forze produttive sarebbero state completamente sconvolte dall'energia atomica e dai mezzi di comunicazione di massa. Non poteva averne la minima idea, ma questi due ultimi elementi cambiano completamente i dati del problema. Un marxista, se è tale, deve tenerne conto.
D. Dunque a cosa può servire oggi Marx?
R. A capire, storicamente, le società europee della fine del XIX e dell'inizio del XX secolo. Fino alla prima guerra mondiale, il marxismo è stato uno strumento indispensabile. Quand'ero giovane e leggevo Marx, avevo veramente la sensazione di intuire verità del mio tempo che altrimenti non avrei mai capito. Ad esempio, che la seconda guerra mondiale si profilava all'orizzonte e bisognava intercettare gli interessi che erano alla sua base. All'epoca il marxismo era già per me una forma mitica — poiché credevo nella sua capacità assoluta di risolvere i problemi dell'umanità — ma anche un incredibile passepartout per comprendere l'evolversi della civiltà moderna. Può darsi che oggi il marxismo permanga nella coscienza collettiva, secondo l'opinione di Hillman, come sguardo genericamente demistificatorio sulla società alla quale si appartiene. Ma l'essenziale, ritengo, è che le persone per le quali Marx ha avuto il significato che ha avuto per me — e l'ha avuto per molti: lo stesso François Furet nel suo libro ha dichiarato che per lui l'aveva avuto — cerchino di ripercorrere in qualche modo le orme di Marx.
D. In che modo?
R. La questione centrale, a mio avviso, è che Marx vuole rimettere la storia sulle sue gambe. Non vuole usare le nebbie dei grandi slanci spiritualisti per spiegare i fatti degli uomini. Vuole capire cosa accade all'uomo reale: come fa a mangiare, a vestirsi? come organizza i rapporti sociali? Ripercorrere le orme di Marx vuol dire valutare in modo critico e scientifico il mondo contemporaneo e gli interessi che pone in gioco. Ma per questo occorrerebbe che i marxisti si mettessero d'accordo gli uni con gli altri, e anche con quelli che non lo sono. Marx deve la sua analisi non solo a se stesso, ma si è fondato anche su analisi altrui, sugli economisti classici e su altri ancora. Oggi, per farlo, bisognerebbe costituire delle équipes.
D. Lei ha fatto qualcosa del genere, con il Centre Louis Gernet?
R. Sa che cosa ho cercato di fare, molto semplicemente, quando negli anni 60 ho creato il Centre? Mi ero reso conto che molti ricercatori erano, come me, marxisti, ma avevano la sensazione che qualcosa, nel loro metodo, non funzionasse. Ci siamo associati, in modo informale, io per la Grecia e Jacques Gernet per la Cina, e altri studiosi per l'Egitto e il mondo assiro-babilonese, e poi gli africanisti e i sovietologi — tutti d'orientamento marxista, o anche fortemente marxisti. Il nostro obiettivo era appurare in che misura le categorie marxiste funzionassero per le società precapitaliste e per quelle antiche, o molto antiche. Avevamo l'impressione che quelle analisi, pur aderendo al mondo moderno, non sempre fossero corrette per quello antico. Facevamo un lavoro di tipo antropologico. Sapevamo che non esistono società prive di forme di potere e di Stato. Ma come si presentano queste forme in Cina, in Grecia, in Egitto, nelle società africane? Non esistono società senza guerre. Ma quali sono le forme della guerra, le sue poste in gioco, i comportamenti bellici nelle diverse civiltà? Non esistono società senza rapporto con la terra, col territorio, con la produzione agricola. Ma questa grande categoria come si presenta nei diversi paesi? Ciascun specialista lo spiegava agli altri, cercando di semplificare al massimo, e ascoltandolo realizzavamo quanto ciascuna realtà fosse diversa, e quanto riduttiva fosse la spiegazione generale basata sulle strutture di produzione. Capivamo che le diverse vie avevano causalità multiple, alle quali era molto difficile applicare gli schemi marxisti.
D. A partire dai suoi studi sulle forme di potere nella Grecia di duemilacinquecento anni fa, potrebbe darci una definizione “genetica” della democrazia?
R. Il problema fondamentale in un gruppo umano è l'esercizio del potere e in particolare di quella forma di potere che si chiama sovranità: la capacità che un individuo o un piccolo gruppo possiedono di esercitare la supremazia su un più ampio gruppo umano e decidere al suo posto. Il fatto fondamentale è che i greci sono stati i primi a considerare in modo cosciente e deliberato che il problema era neutralizzare il potere di sovranità, spersonalizzarlo, perché fosse in qualche modo cancellato. Come? Ponendolo al centro. Il centro è uno spazio privilegiato, radicalmente sottratto alla manomissione di chicchessia. E' il luogo dove si deposita il bottino, che non appartiene a nessuno, ma va suddiviso. E' il luogo dove si deposita il premio nei giochi, perché colui che lo riceverà deve raccoglierlo dalla collettività. Il centro è lo spazio comune, pubblico, controllato, dove avanza chi prende la parola, dove avviene il dibattito. E' uno spazio socializzato, e al tempo stesso impersonale, comune. In questo modo la società greca antica ha risolto il problema di come gestire l'esigenza di un potere senza che questo potere sia la sottomissione dell'insieme della comunità a qualcuno.
D. Ma la democrazia moderna?
R. Nella democrazia moderna, invece, vi è di nuovo, purtroppo, un sovrano: lo Stato, che ha assunto quel potere. Il potere quindi non è più neutralizzato, è delegato allo Stato nella figura dei rappresentanti. Per garantire la libertà dell'individuo, non vi è allora altra scelta se non la divisione dei tre poteri — legislativo, esecutivo, giudiziario —, come spiega bene Montesquieu, tra gli altri. Occorre che davanti allo Stato-sovrano i membri della comunità, tornati vulnerabili, abbiano diritti inalienabili. Il potere non si colloca più in uno spazio desacralizzato, come in Grecia, e quindi l'essenza della democrazia è completamente snaturata. Sarebbe opportuno oggi, a mio avviso, ripensare la democrazia — come lo spirito di comunità possa ricostituirsi in un sistema che non è più lo stesso.
D. Come?
R. Occorre inventare qualcos'altro. Forme di decentramento, di vita associativa in cui il tessuto sociale si riformi al di fuori del Parlamento e del personale politico. La crisi delle democrazie è cominciata, almeno in Europa, nel momento in cui si è allentato il legame tra chi riceve il mandato di sovranità e chi lo dà. Non c'erano partiti, in Grecia, ma c'erano banchetti, circolazione, associazioni. Ora è subentrata l'idea che la politica sia un mestiere, che i politici debbano essere degli specialisti. Di conseguenza, in larga misura, la politica non riguarda più il cittadino. Tra cittadinanza e vita politica c'è stata una frattura. Occorrerebbe saldarla, ma non è facile.
D. Dunque l'impegno, che è l'argomento del suo libro, torna a essere utile.
R. Proprio così. L'ha detto.