Antica Roma, ogni luogo era buono per leggere
In mostra al Colosseo la civiltà greco-romana del libro: la lettura era un esercizio collettivo e diffuso ovunque
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La biblioteca infinita. I luoghi del sapere nel mondo antico (Roma, Anfiteatro Flavio, 14 marzo - 5 ottobre 2014, h 8.30 - 16). A cura di Roberto Meneghini e Rossella Rea. Promossa dalla Sovrintendenza Speciale per i Beni Archeologici e dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Catalogo Electa.
La storia è un cimitero di libri. Come a Henry James, quando visitò le rovine dell’anfiteatro di Arles, parve di risentire “la fioca voce”, spenta millecinquecento anni prima, dei martiri sacrificati nel circo, così, visitando le rovine del mondo greco, latino, bizantino, il centro di Roma o di Alessandria d’Egitto, di Efeso o di Costantinopoli, chi si mette in ascolto può sentire il lamento dei libri. Distrutti dalle persecuzioni religiose e dalle guerre, immolati in massa sull’altare del progresso, inceneriti dalla folgorante traiettoria del carro trionfale della storia, i libri sono martiri della storia: suoi testimoni, e perciò sue vittime.
Dei loro sacrifici restano immagini indelebili. La distruzione della biblioteca del Serapeo di Alessandria da parte dei cristiani nel secolo di Ipazia. La devastazione della biblioteca imperiale di Costantinopoli ad opera dei pii cavalieri della Quarta Crociata. La Holland Park Library di Londra scoperchiata dai bombardamenti nazisti, dove composti lettori, stretti in lunghi cappotti, sostano compulsando assorti gli scaffali. La biblioteca di Sarajevo bombardata e incendiata dai cetnici nella guerra di Bosnia, la biblioteca di Baghdad saccheggiata nella seconda guerra del Golfo. La memoria dell’antica o recente rovina delle biblioteche non può abbandonarci. Meno che mai in quest’epoca, in cui la biblioteca di Babele è realizzata nell’opera di archiviazione digitale del web, possiamo dimenticare che la meravigliosa disponibilità dei libri virtuali può estinguersi in un soffio: per il fanatismo di un regime o il nichilismo di un hacker, o per la crisi globale delle riserve energetiche. Non sappiamo quale sarà il prossimo capitolo, nella storia delle biblioteche.
La mostra che si inaugura il 14 marzo a Roma — non a caso, forse, al Colosseo, altra arena di stragi — si chiude teatralmente con una rassegna di foto del moderno bibliocausto e degli episodi esemplari della distruzione della memoria. Ad aprirla è una panoramica del mondo biblioteche, dei luoghi del sapere che gremivano il mondo antico a nord e a sud, a est e a ovest, nell’unica civiltà grecoromana del libro. Il percorso espositivo, lungo gli ambulacri dell’anfiteatro Flavio rivestiti di antichi scaffali, gli armaria, racconta il loro fato, la loro nascita e morte, il loro splendore privato ma soprattutto pubblico, la loro ancestrale sacralità, l’antico commercio dei libri con gli dèi.
Dei luoghi della lettura — un esercizio non solitario allora ma eminentemente collettivo, se non altro per le recitationes ad alta voce che vi si tenevano e per la loro dislocazione nei luoghi d’incontro sociale, non solo musei o santuari ma anche palestre, ginnasi, terme, spazi polivalenti come il templum Pacis, intorno al quale crebbe nella Roma imperiale il quartiere dei librai — espone i minuti, preziosi reperti: i dittici, i rotoli di papiro, i codici di pergamena; gli stili di bronzo, le tabulae cerate, i calamai e gli altri strumenti di catalogazione e di copia dei libri, raffigurati nei tre affreschi di Nemi; e poi l’ara degli scribi dal Museo Nazionale Romano, la stele di Timocrate “amanuense capace di scrivere correttamente” dal Museo Archeologico di Atene, i nomi degli antichi bibliotecari incisi nel marmo delle epigrafi. In più di cento reperti archeologici rivive per frammenti la naufragata consuetudine degli antichi coi libri, in cui la cultura era commento, citazione, trasmissione, copia paziente del già scritto, non ambizione collettiva alla novità libraria, come se si potesse mai scrivere qualcosa di nuovo sotto il sole.
Statue, rilievi, affreschi raccontano prima le biblioteche ellenistiche, quei pensatoi di intellettuali dalla folle bulimia libresca, finanziati da autocrati gentili come gli Attalidi di Pergamo o i Tolomei di Alessandria, i cui bibliotecari erano poeti come Apollonio Rodio o Callimaco. Ma è Roma il fulcro della mostra, che agli scavi del templum Pacis di Vespasiano accosta quelli degli auditoria di Adriano, di recente scoperti durante i lavori per la metropolitana, proprio come profetizzato nella Roma di Fellini. E convoca, a completare il quadro, memorie di altre biblioteche pubbliche, dall’atrium Libertatis alla biblioteca ad Apollinis, dalla porticus Octaviae alla biblioteca Ulpia. Solo vederle stringersi sulla mappa a est del Tevere, tra il Campidoglio e il Palatino, sopra il Circo Massimo e il Portico d’Ottavia, ci dà un’altra percezione della topografia della città. Percorrendo le antiche direttrici di quei vestiboli di pietra sentiamo, come Henry James, la voce fioca dei libri perduti, di un uso pubblico della cultura inabissato e andato in rovina.