E Crizia sedusse Platone.
L'adesione giovanile del futuro autore della Repubblica nella ricostruzione magistrale di Canfora
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Che cos’è la democrazia? Noi occidentali viviamo convinti che sia “la peggiore forma di governo, ad eccezione di tutte le altre sperimentate”, secondo il detto reso famoso da Churchill. Al punto che ci adoperiamo spesso per “esportarla”, dando per scontato che quel “potere di tutto il popolo” che la parola etimologicamente indica non sia un mito, un equivoco, una costruzione retorica o propagandistica diversamente declinata a seconda delle epoche, ma esista come realtà e come tale si applichi. Anzitutto nel mondo greco in cui nacque e nella politica di una polis di 2500 anni fa: Atene.
Eppure già Tucidide definiva il lungo governo di Pericle “democrazia solo a parole, ma di fatto una forma di principato”. Che cos’era dunque la democrazia per i suoi antichi inventori? Le frasi in cui Tucidide parafrasa e in parte ricrea il cosiddetto epitafio di Pericle tradiscono in realtà una cupa ironia e una neppure troppo recondita critica della retorica democratica e di quella “violenza imperiale esercitata dagli ateniesi ovunque nella terra” attraverso la demagogia, che certo il primo accurato diagnosta delle convulsioni della politica non avrebbe mai menzionato come lode. Ma a lungo sono state prese alla lettera da chi non ha saputo riconoscervi quel fondersi di critica del potere e simulato encomio che dall’antichità a Bisanzio, fino a Stalin, intesse i discorsi dell’intelligencjia.
E’ a questo primo chiarimento che Luciano Canfora affida l’esordio del risolutivo “Il mondo di Atene” (Laterza, 518 pp., 22 euro), vera summa di tutto ciò che si dovrebbe sapere sulla cosiddetta democrazia ateniese; e dunque sulla democrazia tout court nel suo scenario primo. Un micidiale dossier che documenta con sistematica chiarezza le tesi di Canfora, già autore, sul tema, di rigorose analisi talvolta mascherate da pamphlet.
“La chiamano democrazia ma in realtà è un’aristocrazia con l’appoggio delle masse”, chiariva l’antidemocratico Platone nella feroce parodia dell’epitafio di Pericle affidata nel Menesseno alle labbra di Aspasia. Ma è nel breve dialogo Sul sistema politico ateniese, tradizionalmente attribuito a Senofonte, in realtà opera di Crizia, che Canfora indica “il vero e proprio antiepitafio” di Pericle, dove tutti i punti toccati dal tradizionale elogio “vengono capovolti e presentati nella cruda luce della sopraffazione quotidiana di cui si sostanzia il sistema politico-sociale ateniese” per mostrare che la democrazia di Atene “è in realtà violenza di classe, cattivo governo, regno della corruzione e della sopraffazione anzitutto in tribunale, regno dello spreco e del parassitismo”, e che calpesta le forme alte di cultura e d’arte “con l’eliminazione stessa degli uomini che le incarnano”.
E’ questo il punto in cui anche le più devote espressioni di fede dei moderni nella democrazia, basate sull’esperimento ateniese, si incagliano. Quasi per una nemesi prometeica, “Atene” — scriveva Moses Finley ne La democrazia degli antichi e dei moderni — “pagò un prezzo terribile: la maggiore democrazia greca diventò soprattutto famosa per avere condannato a morte Socrate”. E su questo punto — la repressione del dissenso — si arena, simmetricamente, anche la scuola opposta, quella che esalta la moderna democrazia proprio in virtù della sua distinzione rispetto all’antica.
Benjamin Constant, fondatore all’inizio dell’Ottocento di questa dottrina, nel discorso Sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni sottolineava che l’antica idea di libertà era limitativa in primo luogo del diritto alla fruizione della ricchezza; ma al tempo stesso riconosceva che l’egemonia della “repubblica commerciale” ateniese (Montesquieu) nasceva proprio dalla circolazione della ricchezza. Nell’ammettere dunque che “tra tutti gli stati antichi Atene è quello che riuscì più simile ai moderni”, tanto meno rassicurante gli appariva che la più “moderna” delle democrazie antiche fosse la città dell’ostracismo, della censura, del suicidio coatto di Socrate.
E’ il primo dei nodi cruciali del trattato di Canfora: la polarità istituita da Constant (e sulla sua scia dai politologi moderni) tra una “libertà oppressiva” (la democrazia antica) e la “libertà libera” dei moderni, “si sfascia quando si tratta di Atene. E’ lì che il teorema si inceppa perché Atene è le due cose insieme”. E’ libertà oppressiva: schiavista, fra l’altro, come già sottolineato da Tocqueville e come ribadito a oltranza dalla storiografia marxista. Ed è insieme libertà “libera” nel senso moderno: basata sul diritto alla fruizione della ricchezza e perciò esposta a tutto ciò che ne consegue, tra cui l’inevitabile deriva imperialista (fondamento del benessere sociale anche nella lettura socialista di Arthur Rosenberg) e il suo sfociare in oligarchia finanziaria, se non in dittatura finanziaria.
E’ molto più vasta la ricognizione del mito della “democrazia” ateniese che Canfora conduce attraverso le sue metamorfosi, attualizzazioni, consce e inconsce strumentalizzazioni nelle diverse fasi del dibattito storico e filosofico moderno e contemporaneo, per poi rispalancare al lettore, vaccinato dalla credulità, l’accesso pieno all’antichità, ai suoi conflitti palesi o segreti. Per far rivivere, sul palcoscenico dell’antico dramma ateniese, quella remota “scena primaria” che l’ambigua parola democrazia insieme sigilla e preclude. Per rintracciare la vera origine del distorto mito della democrazia ateniese nella politica non più della Grecia ma di Roma: nell’esigenza romana di screditare il grande e comune avversario macedone. L’integrazione tra oriente e occidente e le altre epocali innovazioni dell’impero di Alessandro, intuite da Cesare e Antonio, sarebbero continuate in Bisanzio. Rinnegate dalla reazione augustea, la loro eclissi avrebbe lasciato al medio e poi al moderno evo europeo una livida eredità di guerre barbariche, nazionalismi e conflitti etnici, non ancora estinta.