Il mercato ha rotto le tavole del diritto
Aldo Schiavone, storico marxista non pentito, ripercorre lo "Ius" inventato dai romani, svuotato dal capitalismo
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E’ noto agli specialisti, anche se non a tutti, che uno degli statisti più sopravvalutati dai moderni, anche se non dai suoi contemporanei, è l’imperatore Giustiniano. Praticamente tutti gli intenti della sua politica, in primo luogo l’idea di una restaurazione dell’impero romano “classico” attraverso la riconquista armata dell’Italia, si rivelarono effimeri. In un fallimento normativo quasi immediato si tradusse anche l’ambizioso programma di selezionare, sezionare, redistribuire e riaccorpare in un’unica, nuova e inevitabilmente approssimativa compilazione l’immensa letteratura giuridica del passato romano. Il Corpus iuris civilis – questo il nome che molto più tardi, nel Rinascimento, fu dato a quel non lunghissimo testo - doveva avere valore di diritto vigente, funzionare cioè nel “rigenerato ordine giuridico che Giustiniano voleva costruire intorno alla sua consolidata autocrazia”, come scrive Aldo Schiavone nel suo ultimo, penetrante saggio, Ius, dedicato appunto a indagare, su diversi piani e secondo più registri, quella forma specifica di disciplinamento sociale, distinta dalla religione, dall’etica e dalla stessa politica, che chiamiamo diritto: un’eredità romana, che da un lato è carattere costitutivo dell’Occidente e valore fondante della nostra civiltà, ma che dall’altro conosciamo solo attraverso il cosiddetto “salvataggio” giustinianeo di una tradizione nel VI secolo ancora quasi interamente disponibile eppure adattata alle esigenze ideologiche di un unico statista. “Sappiamo”, scrive Schiavone, “dell’esistenza di un grande giardino, ma dobbiamo accontentarci dello scorcio che intravediamo da una sola finestra”: la visione che del pensiero giuridico antico aveva uno specifico gruppo di intellettuali, in uno specifico momento storico, e con un fine specifico.
Ma, domandiamo a Schiavone, quel fine fu almeno raggiunto? “Niente affatto. Dal punto di vista dello scopo immediato fu un disastro. Quel mosaico di testi che avrebbe dovuto servire il proprio tempo non lo fece mai: scritti per lo più in latino, inadatti al livello medio delle conoscenze giuridiche di allora, caddero in disuso nel giro di pochi decenni. Ma l’opera di Giustiniano ebbe uno strepitoso destino, un vero caso di eterogenesi dei fini. Per uno scherzo della storia, su quel testo, riscoperto a partire dall’undicesimo secolo, si costituì l’identità stessa dell’Europa: prima tra l’Italia e la Francia, poi in Germania, nei Paesi Bassi, in Inghilterra, e anche in Spagna”. E contemporaneamente a Bisanzio stessa, potremmo aggiungere, dove nell’XI secolo la facoltà di giurisprudenza dell’università di Costantinopoli riunì nello studio del diritto i migliori cervelli della sterminata classe dirigente di un impero che ancora si chiamava e si riconosceva “romano”.
I Digesta e l’intero Corpus iuris sarebbero stati votati così a un successo ultramillenario, avrebbero partecipato “al costituirsi dell’idea stessa di Occidente, o almeno della sua ragione civile, formata nel corso della modernità integrando al proprio interno due grandi dispositivi: un paradigma di ascendenza greca, la politica come sovranità popolare e la legge eguale per tutti, e uno di derivazione romana, il diritto come conformità a un sistema autocentrato di regole razionalmente definite”. In realtà, solo l’Europa moderna avrebbe faticosamente conciliato i due modelli, cercando di coniugare diritto e democrazia, ordine giuridico e popolo sovrano. Ma, paradossalmente, è proprio questo, per Schiavone, il momento in cui ha inizio il tramonto del “grande discorso pubblico dell’Occidente”. Pur riuscendo ad attraversare l’età delle rivoluzioni e quella delle codificazioni borghesi, vivendo un’ultima stagione nell’Ottocento prima romantico e poi positivista in cui la cultura antica era ancora misura del progresso dei moderni, quelle “tavole di un’autentica scienza per il controllo sociale, che riusciva comunque a trattare la propria incandescente materia senza lasciarsene perturbare, ma raggelandola nelle forme di schemi universalmente accettabili” non sono riuscite, conclude Schiavone, a sopravvivere al processo che a partire dalla rivoluzione industriale, con una forte accelerazione nel Novecento, ha portato alle forme odierne del capitalismo.
Nel secolo appena concluso, la parabola, lunga quasi un millennio, delle dottrine dei giuristi romani è, per Schiavone, “progressivamente scaduta”. Ed è stato anche questo a suggerirgli la stesura di un’opera in cui “acquisire un punto di vista storiograficamente vantaggioso” e “osservare finalmente dall’esterno e da lontano” un’eredità che ha condizionato la nostra storia ma che oggi, puntualizza, “non ha più presa sulla realtà viva dei processi economici, sociali, materiali, che sfuggono sempre più a quei paradigmi”. Per sostituirli con cosa? “La lex mercatoria, le regole che disciplinano i processi della finanza globale, il commercio mondiale, sono sovraintesi da un diritto creato da chi produce, che forma i suoi interlocutori e le sue regole al di fuori degli apparati statuali e dalle loro leggi”. Ne è sicuro? “Tanto più, in quanto è nostra la colpa. Non siamo riusciti a costruire un diritto che vada oltre il formalismo, e nemmeno a prepararne gli strumenti concettuali”. Forse questo scarto è simile a quello fra etica, scienza e tecnologia, nel mondo contemporaneo? “Forse, ma sono più propenso a ragionare in termini di strutture: è la mia deformazione economico-strutturale di marxista non pentito”. Davvero? “Ogni grande storico non può non essere marxista. A maggior ragione, ogni piccolo storico”.