Cantami, o Musa
Quelle ragazze di marmo coi capelli raccolti e l’aria assorta drappeggiate in casti négligés erano il punto di riferimento di Omero, Pitagora, Esiodo e Pindaro
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[Soprintendenza archeologica di Roma. Musa pensosa. L’immagine dell’intellettuale nell’antichità, a cura da Angelo Bottini. Catalogo Electa. Colosseo, 19 febbraio – 20 agosto 2006]
Non molto tempo fa, a un convegno universitario, mentre un grecista dissertava dell’invocazione alla Musa in Omero e Esiodo come di un’immagine retorica – “naturalmente nessuno di noi crede alle Muse e probabilmente neanche loro” -, uno studente lo ha interrotto: “Io ci credo, alle Muse”. Dopo qualche secondo di sconcerto, dalla platea di accademici si è levato un brusio di approvazione. Sarà stato il tramonto del materialismo marxista, sarà stata la New Age, ma un po’ tutti si sono lanciati: “Di sicuro gli antichi le vedevano”, “Se è per questo ogni tanto le vedo anch’io”. E così quel grigio convegno è diventato visionario e iridescente.
In che stato fossero e che cosa vedessero gli antichi quando vedevano una delle nove figlie di Zeus non è affatto chiaro dalle testimonianze figurative che ci sono rimaste. Da domani saranno visibili nella mostra al Colosseo di Roma e tutti potremo giudicare se quelle ragazze di marmo coi capelli raccolti e l’aria assorta, drappeggiate in casti negligés, siano veramente l’epifania indicibile tanto attesa dagli spiritati intellettuali di cui contempleremo i ritratti: Omero cieco e veggente, Pitagora dal turbante orientale, Esiodo dalla fronte contratta, Virgilio dalle labbra serrate, Pindaro in trance come uno sciamano, e poi Eschilo, Epicuro, Cicerone e tutti gli altri volti pietrificati, in attesa dell’ispirazione.
Che cosa fosse per loro la Musa non ce lo rivela neanche l’origine del nome, che pure ha dato luogo a tanti altri, da “musica” a “museo” - quel “recinto dell’intellettuale” di cui parla, nel ricco catalogo Electa, Guglielmo Cavallo. L’etimologia è sconosciuta. Si pensa sia connessa a quella della loro madre, Mnemosyne, dea della memoria. Ma anche cosa intendessero gli antichi per memoria è misterioso, se è vero che sulle lamine d’oro insieme alle quali gli orfici seppellivano i morti era scritto: “Sono riarso di sete e mi sento morire, ma datemi presto / la fresca acqua che scorre dal lago di Mnemosyne”.
Alcuni, per capire cosa fossero le Muse dei greci, sono ricorsi al loro equivalente latino, le Camene, di cui scrive, nel catalogo, Eugenio La Rocca. Il loro nome potrebbe venire da carmen: la poesia come incantamento, come formula magica? maghe o streghe, quindi, seduttrici come in seguito la Carmen di Merimée? Una cosa è certa: erano vere e proprie, blasonate dee, non vie di mezzo come le Ninfe. E in quanto tali avevano il potere sovrumano di concedere o negare al logos, al pensiero-parola, insomma alla coscienza, di attingere al serbatoio sotterraneo che contiene il passato, il presente, il futuro – tutto ciò che in realtà sappiamo, ma che senza l’intervento della Musa non possiamo far affiorare. Per questo i volti degli antichi ci appaiono così concentrati e apprensivi: non era la loro intelligenza, non era nulla di umano a sciogliere in loro quel flusso che genera ciò che chiamiamo arte.
Invocare la Musa, quindi, non era retorica. I poeti antichi vedevano le Muse, forse come gli sciamani vedono i loro spiriti guida. Forse erano visioni multicolori, psichedeliche, e ci inganna, oggi, il biancore del marmo.
E noi? Se qualcosa è cambiato, non è certo la psiche umana. Lo è di sicuro la sua capacità di collegarsi all’anima del mondo: la sua “religione”, da “religo”, legare. Gli dèi dell’antichità sono in apparenza scomparsi: si sono inabissati nel profondo, ma, come diceva Jung, riaffiorano nei nostri sintomi, in ciò che nelle nostre vite convulse chiamiamo nevrosi. Se Hillman ci ha insegnato a riconoscere nei nostri malesseri l’epifania di Pan o di Apollo o di Marte, allo stesso modo non possiamo non ritrovare anche le Muse.
Allora, qual è la Musa delle modernità? Probabilmente, seguendo Hillman, la più endemica malattia dell’anima: la depressione. Non è lei a strapparci dall’alienazione della vita per dettarci le sue desolanti, profonde verità? non è questa Musa a torcere i volti di Bacon, a scavare le solitudini di Hopper, a strappare le note dei blues, a scarnificare tutte le altre forme d’arte della modernità?
Forse aveva ragione, quello studente, a credere che le Muse si vedano anche oggi. Ma non sono certo le immagini che ci propongono i media e le pubblicità, quando chiamano “musa”, magari di un sarto, una fotomodella. Le nostre Muse si sono trasformate, non sono più giovani e belle. Anzi, sono sempre meno tollerabili allo sguardo e sempre più difficili da ascoltare: tacite, come l’antica Musa del Silenzio evocata, nel catalogo, da Maurizio Bettini, che già in età romana sembra anticipare le Muse simboliste del saggio di Luca Bortolotti. Le nostre Muse, inquietanti come quelle di De Chirico, i poeti hanno continuato a cantarle. Ma legano la lingua anziché scioglierla, lamenta Fitzgerald, e Joyce non riesce a sentirle quando la sera, con le stelle, sale lo spleen. L’invocazione alle Muse di Cocteau è un’invettiva e un addio: “Muse, che non badate a piacere o a dispiacere, / vi sento andarvene senza salutare”. Ma la visione più intensa è quella di Anna Achmatova, la poetessa più ispirata dalla Musa del Novecento: “Come posso vivere con questo fardello, / e ancora la chiamano Musa?, / Dicono: ‘Tu con lei sul prato…’/, dicono: ‘Divino mormorio…’/. Più violenta della febbre ti dà i brividi, / e di nuovo, per tutto l’anno, non una sillaba”.