Yourcenar, il bacio del princeps risveglia la scrittrice
Un talento letterario “scongelato” dall’incontro fatale con Adriano: Marguerite e il suo imperatore in mostra a Tivoli
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Il 24 gennaio 1949 un baule arrivò negli Stati Uniti, spedito da un hotel di Losanna dov’era stato abbandonato dieci anni prima. La sua proprietaria, un’aspirante scrittrice di padre francese e madre belga, era fuggita dalle rovine dell’Europa in guerra, dalla gentilhommière di famiglia anch’essa destinata alla rovina, per rifugiarsi in quella che le appariva “un’arca di salvezza, ma alla deriva”. Si chiamava Marguerite de Crayencourt, ma, in un’epoca in cui inventare la nobiltà era possibile a tutti, aveva inventato per se stessa un nome fuori dal tempo, all’insegna della Y pitagorica: “una lettera bellissima”, l’albero a due rami che nella mistica esoterica all’epoca in voga simboleggiava la scelta e l’inconcludenza della scelta. Se, come ha scritto Borges, “siamo in un punto imprecisato della caduta dell’impero romano”, se uno scrittore di quest’epoca non ambisce che ad “essere un nome in un indice”, Crayencourt/Yourcenar scelse il proprio perché fosse tra gli ultimi.
L’America le dava “la sensazione orribile di galleggiare in un mondo ormai privo di terraferma”. Non riusciva più a scrivere, sopravviveva “in un buio totale, cercando di morire il meno possibile”, insegnando in un college alla periferia di New York, traducendo spirituals, ospite della compagna Grace Frick. Quando aprì il baule, accanto al fuoco, stentò a ricordare chi fossero le persone che tanti anni prima, a quanto emergeva dalle carte che vi erano contenute, avevano contato per lei. Chi era quel Marco al quale, in una lettera ingiallita, si rivolgeva con tanta intimità? “Di quale amico, di quale amante, di quale lontano parente si trattava?”. Solo dopo un po’ ricostruì che quel lontano parente era Marco Aurelio e quelle carte gli abbozzi di un ingenuo progetto letterario concepito a ventun’anni, dopo avere visitato la Villa Adriana insieme a suo padre, un dongiovanni tisico dal profilo di cammeo. Quel dandy in panama e bastone da passeggio le aveva trasmesso la passione per i classici leggendole in inglese Marco Aurelio fin da bambina, insegnandole il latino, poi il greco, facendole fare quel tour dei musei d’Europa, in cui “il virile, quasi brutale bronzo di Adriano” del British Museum l’aveva colpita già undicenne. Ma era stata la visita del ’24 a Tivoli a far scoccare nella giovane autodidatta “la scintilla” che venticinque anni dopo, davanti al focolare americano, avrebbe finalmente attecchito per sciogliere il gelo che paralizzava il suo talento.
Tra le molte immagini raccolte nella mostra su “Marguerite Yourcenar. Adriano, l’antichità immaginata”, che si è appena aperta all’Antiquarium di Villa Adriana, quel baule non c’è. Ma c’è l’applique su cui una pur già matura Yourcenar trascrisse in greco, con la grafia incerta dello studente di ginnasio, l’epigramma Kaibel 811, secondo alcuni composto da Adriano. E l’abat-jour su cui incollò l’incipit latino di un’altra, più celebre poesia attribuita all’imperatore: Animula vagula blandula… Cercava nell’antichità “un sostegno attraverso i tempi” in modo dilettantesco, ingenuo, ben còlto nel ritratto senile di Yousuf Karsh, con il Panegirico a Stilicone di Claudiano aperto tra le dita.
“Il prestigio e la melancolia delle rovine” fondono quelle del castello paterno di Mont Noir e le visioni di Tivoli, le macerie della guerra e il percorso carsico che dall’antichità affiora nel Rinascimento per poi reinabissarsi e tornare alla luce nel Novecento. I reperti del passato individuale di Yourcenar si intrecciano, nella mostra, con quelli del passato classico, in un continuo transfert non solo tra lei e l’Adriano di cui scrisse come un’autobiografia le Memorie, destinate a diventare uno dei più sorprendenti bestseller del Novecento, ma fra archeologia e analisi del profondo. Nei documenti esposti Villa Adriana è vista attraverso Piranesi, il cui “genio quasi medianico vi ha fiutato l’architettura tragica del mondo interiore”. Mentre Freud e Jung riscoprivano i miti e gli dèi nei sintomi e negli archetipi della psiche novecentesca, Yourcenar definisce il mito “una sorta di assegno in bianco” dove lo scrittore “può permettersi di scrivere la cifra che gli serve”.
In quel luogo mitico, in quel teatro rovinografico in continua metamorfosi per le opere di restauro e di scavo, Yourcenar tornò spesso vincendo l’insofferenza per i deprecati “transistor dei turisti” profani. Amava la rustica, sostanziosa cucina del Ristorante-Hotel Adriano, dove soggiornava e dalla cui camera poteva affacciarsi sull’ingresso monumentale, oggi dismesso, e sul Viale dei Cipressi, da cui iniziava allora la visita. Fra gli ex-dipendenti dell’Area Archeologica c’è ancora chi ricorda quella figura solitaria e silenziosa che vi passeggiava o vi sedeva all’ombra di un leccio.
Ma più dell’icona dal capo coperto — portato dei suoi viaggi in oriente, o dei suoi viaggi nel passato — che nella maturità la faceva sembrare a volte non tanto un’antica sacerdotessa quanto una contadina d’altri tempi, come nell’Hommage (2005) di Elsa Genèse, nella galleria di foto che apre la mostra — così come nello straordinario catalogo Electa, destinato certamente a vita propria — colpiscono le foto che la raffigurano tra i venti e i quarant’anni. L’evoluzione della ventenne dai lunghi occhi chiari sotto il cappello di pelliccia, che proprio come l’antico imperatore vive in Grecia la propria omosessualità per poi trasformarsi, nell’esilio americano, in figura anche esteriormente virile, sposata alla bellezza androgina di Grace Frick, dà la misura dello spaesamento che la induce nel ’49 ad aggrapparsi ai puerili appunti appena ritrovati per cercare, nella stesura delle Memorie di Adriano, una sintesi “tra la speranza insonne e la saggia rinuncia a ogni speranza, tra i piaceri dell’anarchia e quelli dell’ordine, tra il titanico e l’olimpico”.
Volle “scrivere quel libro a qualunque costo”. Lo fece di getto, “chiusa in una cabina di vagone letto come in un ipogeo”, al ristorante della stazione di Chicago aspettando un treno bloccato dalla neve. Nella notte, sull’espresso per Santa Fé, “tra i dorsi neri delle montagne del Colorado e l’eterno disegno degli astri”, disegnò quell’’”umanesimo che passa attraverso l’abisso” in un’epoca in cui, secondo un’amata frase di Flaubert, “gli dèi non c’erano più e Cristo non c’era ancora e ci fu, da Cicerone a Marco Aurelio, un momento unico in cui a esistere fu l’uomo, solo”. Viaggiando nel Tennessee, cercò di definire e descrivere “quell’uomo solo e d’altra parte legato al tutto” in una maniera molto diversa da quella dell’esistenzialismo imperante nella Francia che aveva abbandonato. Cercò di farlo ‘non dicendo nulla di suo’, ritenendo che “quasi tutto quello che gli uomini hanno detto di meglio è stato detto in greco”.
“Io me mio… O tutto è in tutto o non vale la pena che se ne parli”. Yourcenar annoverava se stessa — come esplicitò in una delle lettere a Lidia Storoni Mazzolani esposte nella mostra — tra coloro che “sono troppo umili o troppo fieri per parlare di sé”. Sulla sua tomba fece incidere in latino il motto di Zenone: “Unus ego et multi in me”, “In me c’è un io singolo e ce ne sono molti”. Quando, in un abito disegnato per lei da Yves Saint Laurent, fu accolta, prima donna, all’Académie Française, rifiutò la spada: “Mi sarebbe piaciuto un altro oggetto: un pugnale per uccidere l’ego”.