Tutti pazzi per Eros
Mostra al Colosseo I mille volti del dio ambiguo che ha ispirato artisti, poeti e pensatori. A lui neppure Zeus poteva resistere
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Lucrezio sapeva che, tra i desideri vani della vita, il più tormentoso è l'amore. “Non vedi come soffrono le coppie? Già quando l'amore è felice e i corpi si congiungono, non riescono a saldarsi, a confondersi in un solo essere. Così nasce la lotta. Ci logoriamo, consumiamo le forze, passiamo i giorni sotto il capriccio altrui”. “L'unica, suprema voluttà di Eros sta nella certezza di fare il male”, riassumeva Baudelaire. “L'amore somiglia a un'operazione chirurgica, in cui uno dei due sarà sempre il paziente e l'altro il carnefice. E' un gioco spaventoso, in cui uno dei giocatori deve perdere il dominio di sé”.
“La verità, vi prego, sull’amore”, invocava Auden, sapendo bene che nessuno è mai riuscito a stringerla, né con la ragione né con la fede. E’ infinita la molteplicità, ambiguità, indefinibilità dei volti di Eros. Perché è il dio per eccellenza, e come tale imperscrutabile: guai a cercare di guardarlo in viso. Se tentiamo di farlo, la pena è quella suprema della perdita, come nella fiaba milesia di Amore e Psiche raccontata nel Fedro di Platone e poi dalle Metamorfosi di Apuleio, nel più mistico e insieme ironico dei modi.
Che l’umanità non sia mai riuscita, o meglio abbia sempre temuto di afferrare e fermare un’immagine di Eros è la principale e più sconvolgente verità sull’amore offerta dalla mostra romana che si è appena inaugurata al Colosseo e sarà aperta al pubblico fino al 15 settembre. Dall’Eros alato ma senz’arco dell’affresco della Villa della Farnesina all’arciere marmoreo di Lisippo, dalle lotte vascolari tra Eros e Anteros, “l’amore buono e l’amor men buono” per dirla con l’abate Scaramelli, fino al demone che batte le ali sul tiaso dionisiaco; dall’Eros Farnese-Steinhauser, il sensuale adolescente di Prassitele, fino al bambino, figlio di Afrodite e Ermes, degli affreschi pompeiani, assorto in mille giochi nelle pitture della Casa dei Cervi di Ercolano, distratto o addormentato in tante sculture ellenistiche, le raffigurazioni dell’iconograficamente oltreché mitograficamente meno definito di tutti gli dèi sono in sé preghiere, esorcismi tesi a ammansire apotropaicamente quest’essenza divina misteriosa e terribile. Nella mitologia classica, se trafitti dalla freccia di Eros, neppure gli Olimpici, Zeus compreso, possono resistere. E però, se è il dio incostante che fa soffrire i fedeli più devoti, è anche il “grande demone che ha il potere di mettere in comunicazione dèi e uomini”, come lo definisce Diotima nel più formidabile dei trattati che lo riguardano, il Simposio di Platone. Il suo discepolo, Socrate, è un “uomo demonico” che fin dall’inizio dichiara di “non conoscere nient’altro se non l’amore”. Nel crescendo di definizioni date dai commensali, Eros è “ciò che guida a vivere in modo bello”, è “ciò che spinge a ogni apprendimento”, è “colui che ci svuota dell’estraneità e ci riempie di intimità”. Fino all’Eros/cura di Erissimaco, che definisce la medicina in sé “scienza degli atteggiamenti amorosi del corpo” anticipando il culto tardoantico di Eros Asklepios. E fino alla parabola di Aristofane sull’androgino primordiale, “con quattro mani e gambe e due volti in un’unica testa”, poi diviso da Zeus così che ciascuna metà cerchi per tutta la vita la metà perduta. Perché “nessuno può credere che basti il sesso a spiegare l’immensa gioia di stare l’uno vicino all’altro: è evidente, invece, che l’anima di entrambi vuole qualcosa di diverso, che non è capace di esprimere, di cui ha un presentimento e parla per enigmi”.
Ma proprio quando siamo arrivati all’essenza più alta e teologica dell’Eros, ecco che irrrompe, a contraddire la possibilità stessa di discettare su Eros in astratto, l’esperienza dell’eros vissuto, destinato a non essere mai soddisfatto: è l’uomo più bello e spregiudicato del suo tempo, Alcibiade, a narrare il suo amore infelice per Socrate, dando vita al colossale equivoco di ciò che verrà chiamato l’amore platonico, espressione che i posteri useranno per definire l’opposto di quel desiderio carnale, e insieme intellettuale, che Alcibiade racconta con sarcasmo e dolore schermando, nella maschera dell’ubriachezza alcolica, l’ebbrezza del dio. Che ha più caro l’amante dell’amato: “Più divino in realtà è l’amante che l’amato, poiché posseduto dal dio”. Il che è sempre stata una magra consolazione, tuttavia, della sofferenza d’amore.
Eppure, come scriveva il pio Plutarco, Eros è il nostro re, colui che ci guida e ci governa. Quanto più, col trascolorare dall’antico al tardoantico, il significato prevalente di Eros sarà filosofico-religioso, tanto più, figurativamente, il giovane efebo arretrerà negli anni, diverrà putto angelico, homunculus alchemico, puer-mercurio. Ma la sua sublimazione teoretica o esoterica non arriverà mai a disinnescarne la forza, e se già nell’Antico Testamento giudaico il delirio erotico aveva trovato il suo posto nel “Quaesivi et non inveni” della Sulamita, nella carnalità del Cantico dei Cantici, interpretato dai grandi mistici di nuovo come allegoria della tensione dell’anima verso il divino, alla fine del paganesimo la sua metamorfosi cristiana gli farà cambiare provvisoriamente nome ma non identità e sostanza: nell’inno all’amore della I lettera ai Corinzi Paolo potrà descrivere con la forza dell’adepto di eros l’agape cristiana “che tutto sopporta, crede, spera”, senza cui “suoniamo come cembali vuoti”.
Perché in effetti senza Eros – e non solo i filosofi o i teologi antichi, anche Freud lo sapeva bene – moriremmo: si spegnerebbe la scintilla di vitalità, creatività, divinità che solo la sua forza alimenta in noi, si estinguerebbe l’unica dinamica psichica che ci tiene in vita: non l’appagamento ma il desiderio, non l’oggetto della ricerca ma la ricerca in sé. Una ricerca che non trova, come quella della Sulamita, ma che proprio per questo, rinnovandosi sempre, trafiggendoci e pungolandoci senza tregua, ci allontana dalla depressione e ci trattiene dal suicidio, materiale o morale.